di Alessandra Prizzon per gustosamenteinsieme.blogspot.com – Sì, ricomincio da Taste per Taste 2011.

Durante l’edizione dell’anno scorso ho avuto il piacere di intervistare Davide Paolini, anzi più che un’intervista direi una chiacchierata a ruota libera sul cibo come fattore culturale ed espressione dei territori, per finire a parlare di cucina molecolare. Vi ricordate l’anno scorso che polverone sulla cucina molecolare di Ferran Adrià?.

Per vari motivi non sono riuscita a riportare prima quest’intervista, ma ho pensato che potesse essere un bel modo per ricominciare a parlare della nuova edizione di Taste 6 che si terrà sempre a Firenze dal 12 al 14 marzo, sempre alla Stazione Leopolda, e sempre ricca di aziende interessanti e di eventi.

Ecco la mia intervista a Davide Paolini a Taste 2010.

Alessandra Prizzon – Di Davide Paolini “gastronauta” si sa molto, ma come è arrivato Davide Paolini ad essere il “Gastronauta”?

Davide Paolini – Mi ha cercato Lui, mi ha cercato il gastronauta; c’è stato un evolversi di fatti nella mia vita che mi hanno portato nel mondo del cibo per cui non me ne sono neanche accorto.

E’ il cibo che ha cercato me e non io che ho cercato il cibo, nel senso che facevo tutt’altro lavoro; è vero ho sempre avuto questa passione, però non avrei mai pensato di farlo come mestiere nella vita, poi c’è stato un momento in cui mi venivano richieste molte cose e tutte relative al cibo e così è diventato un lavoro per forza.

La svolta è stata proprio questa; mi sono occupato per anni di comunicazione nel campo della finanza e dello sport, settori nei quali mi sono misurato e sono cresciuto, poi piano piano, dopo aver lasciato la Benetton ed essere tornato a Milano, pur continuando il mio lavoro nel campo della comunicazione, ho iniziato ad avere sempre più richieste di comunicazione legate al mondo del cibo; il cibo mi ha tentato, e così è nato, in questo senso è nato quasi per caso, il gastronauta.

A.P. – Che cosa pensa allora delle nuove forme di comunicazione?

D.P. – Penso che la comunicazione sia sempre in movimento, che non si fermi mai. La comunicazione di per sé è un fenomeno in divenire, tiene conto di tante cose, di cosa ci accade intorno, dell’innovazione tecnologica; quindi le forme di comunicazione che ci sono oggi penso che fra dieci anni non ci saranno più, ce ne saranno altre, quindi non bisogna fermarsi.

A.P. – Come vede il futuro della comunicazione dei prodotti agroalimentari Italiani, del loro rapporto con il territorio e la nostra identità culturale?

D:P. – Posso vederlo da un lato, diciamo sentimentale, lo vedo ancora come una cosa straordinaria; il racconto dei territori è ancora la miglior forma di comunicazione che ci possa essere per i prodotti. Però mi devo anche render conto che il mondo è molto veloce, molto rapido e che probabilmente ci sono tanti altri prodotti in giro per il mondo, legati anche quelli al territorio o ad altro, che possono essere pari ai nostri  prodotti come valore.

Credo che in ogni paese del mondo ci siano dei prodotti molto importanti legati al territorio, magari meno che in Italia, perché l’Italia è molto diversa e quindi siamo un paese che  ha il   vantaggio delle diversità, anche nella cucina abbiamo il vantaggio delle diversità; però non si può negare che i prodotti degli altri non siano altrettanto importanti.

Mi è capitato, ad esempio di andare qualche anno fa a Montreal, in Canada, e di scoprire che a Montreal c’era un melone particolare, molto coltivato negli anni ’50, poi abbandonato e quindi riscoperto; tutta la comunità del Quebec vedeva in questo melone particolare l’ancoraggio culturale al suo passato.

Pertanto anche paesi che non hanno un grande passato, hanno comunque i loro prodotti, le loro tradizioni ed i loro modi di vita.

A.P. – Ma, secondo lei, il fatto che noi Italiani abbiamo difficoltà ad accogliere le culture degli altri e siamo sempre in atteggiamento difensivo, dipende dalla non piena consapevolezza della nostra identità culturale o dall’incapacità di confrontarci con il diverso?.

D.P. – E’ solo una forma di presunzione. Faccio due esempi semplici che sembrano fuori tema, ma poi mi ricollego.

Ad esempio tutti pensano, in particolare i baristi, che basti avere una macchina per caffè espresso per fare bene il caffè, in realtà il caffè espresso che beviamo al bar lascia spesso a desiderare e, paradossalmente, si beve buono più all’estero che in Italia. Questo, perché all’estero, dove non hanno questa cultura ancestrale per il caffè, devono imparare a farlo davvero, e quindi sono molto attenti ad ogni cosa che può rendere il caffè servito in tazza meno buono.

Un altro esempio: per tanti anni abbiamo creduto di essere i più bravi della classe a fare il vino, poi ci siamo accorti che paesi come l’Australia, dove non pensavamo ci fosse la vite, che invece è presente fin dal ‘700, hanno dimostrato di saper fare dell’ottimo vino e di avere comunque una loro cultura della vite.

Ecco, in questo abbiamo delle forme di presunzione, la presunzione di pensare di avere solo noi una storia e un passato.

Invece probabilmente siamo solo dei pessimi conoscitori delle storie del mondo ed allora abbiamo questa presunzione, perché non conosciamo la storia e le culture degli altri.

A.P. – E pertanto questo ci limita e non riusciamo a confrontarci pienamente?

D.P. – Sì questo ci limita e secondo me limita tutti i paesi del Mediterraneo

A.P. – E lei pensa che allora il cibo possa portare un’unione trasversale delle culture, come è già stato in passato oppure no?

D.P. – Io credo che la cucina sia tutta contaminazione, su questo non ci sono dubbi, e quindi penso che le contaminazioni siano continue, però non credo che possa essere la cucina ad avvicinare le genti, può servire, ma non può essere determinante; ci possono essere dei piatti che accomunano, ad esempio noi abbiamo scoperto lo zenzero, ma penso che molte persone che usano lo zenzero in Italia non si siano mai chieste da dove arriva…

Quindi può servire, ma abbiamo ancora un po’ tutti la mentalità di quelli che quando vanno all’estero vogliono mangiare italiano.

A.P. – Pensa che ci possa essere in tal senso un cambiamento positivo?

D.P. – Penso che sarà impossibile evitare il cambiamento, perché la mescolanza culturale e delle genti porterà dei vantaggi, ma vedo un cammino molto lungo.

A.P. – E questo cambiamento metterà a rischio la nostra identità culturale?

D.P. – Secondo me l’identità, come la tradizione, non è un fenomeno fermo, è un fenomeno in evoluzione, l’identità e la tradizione si evolvono.

Quando si dice tradizionale, tradizionale può anche essere un qualcosa di cinque anni fa, non c’è una tempistica tale che definisca quello che è tradizionale da quello che non lo è. Tradizionale è qualcosa che diventa comune in un territorio e quindi lo diventa anche nel giro di tre-quattro anni, non è detto che tutto debba essere di due secoli fa; così come l’identità è in evoluzione: l’identità che aveva un uomo nato nell’Ottocento non è la mia identità.

A.P. – Perciò si potranno perdere certi prodotti o certe produzioni nel tempo?

D.P. – Questo sarà inevitabile, perché verranno meno le materie prime, gli ingredienti e comunque i sapori non sono più quelli originali, ad esempio ci sono molte zone dove si produce formaggio e non c’è più chi produce il latte in zona, oppure dove si producono certi salumi, ma non ci sono in loco gli allevamenti di maiali e allora come si fa…

A.P. – Il futuro che ci attende sarà un futuro di integrazione?

D.P. – Lentamente sarà una grande mescolanza, non so, non so guardare al di là della mia vista, preferisco rimanere nel mio raggio, da qui a vent’ anni ci sarà mescolanza, ma non sarà tale da portare ad una comunanza, ci saranno ancora molte divisioni.

A.P. – In Italia infatti il numero di ristoranti etnici è inferiore rispetto ad altri paesi della Comunità Europea.

D.P. – Certo, perché noi siamo stati molto emigranti e poco ricettori, abbiamo esportato molto anche in termini di cucina; noi in Italia stiamo vivendo ora quello che è successo ad esempio negli Stati Uniti quando siamo arrivati noi come emigranti nel secolo scorso.

A.P. – Un’ultima cosa che riguarda un altro argomento, oggetto anche di un “ring” qui a Taste e di grande attualità. Che cosa pensa della cucina molecolare?

D.P. – Secondo me non esiste una cucina molecolare, è un’invenzione mediatica; esiste una cucina che osserva i fenomeni delle molecole ed interviene senza scombinare niente ed in molti casi senza l’aggiunta di additivi chimici. Credo che la cucina molecolare, così come l’ho descritta deve essere rispettata come le altre; a meno che, come ho detto, non ci sia un intervento chimico o qualcosa di totalmente diverso, io non credo la si debba criminalizzare.

Ritengo che Ferran Adrià sia un grande genio della cucina ed ho molto rispetto di lui e di quello che ha portato avanti, credo che la sua non sia cucina, ma metacucina che ha per me un significato molto diverso. Lui ha rotto gli schemi della cucina tradizionale e quindi lo rispetto, così come rispetto il cuoco che fa le tagliatelle al ragù come si facevano cent’anni fa.

Non mi pongo il problema di come viene fatto in cucina un piatto, ma mi pongo il problema se è buono o non è buono e questo che sia cucina molecolare o meno.

A.P. – Cosa c’è nel prossimo futuro del gastronauta?

D.P. – C’è il sito del “Gatronauta” rinnovato e vari progetti editoriali, e tanti altri….

Mi piace parlare di posti, di piccoli produttori, di personaggi, di piccoli musei,….

A me piace viaggiare in questa maniera, perché credo che il cibo sia un mezzo non il fine, il fine è conoscere i territori e la gente.

A.P. – Allora aspettiamo questi resoconti di viaggio, còlti da un punto di vista diverso, ma alquanto interessante e autentico.

Grazie a Davide Paolini.

Anche quest’anno i motivi per visitare Taste 6 sono veramente tanti, date un’occhiata al calendario ed agli espositori e vedrete.

Ci incontriamo a Taste 2011 allora….