pino grigio cronaca 2di Angelo Rossi * – E’ passata una settimana dall’happening enodialettico al Mas de la fam a Ravina di Trento sul Pinot grigio. Un tema intrigante che ha mosso e coinvolto animi sensibili, variamente interessati, tutti a loro modo sinceri. L’incontro non aveva la pretesa di risolvere alcunché perché il fenomeno non è governabile, ma ha dimostrato che del fenomeno si può discutere civilmente e che un dibattito è tanto più utile quanto più greve può apparire l’orizzonte. Esso ha lasciato un segno immateriale dove la successiva degustazione ha rimandato a sensazioni più concrete. Per scherzo carnascialesco, già l’anonimo calice di benvenuto conteneva un Lugana in omaggio a quel Trebbiano destinato a scalzare il Grigio nelle preferenze d’impianto. Una provocazione non raccolta, ma nemmeno monnezza da scopare sotto il tappeto. Certo, “ le parole sono sempre tante e spesso intelligenti. Credo che momenti come questi siano segni importanti che testimoniano una resistenza critica, sottolineano che esiste e persiste un pensiero critico e antagonista”. Ipse dixit Cosimo senior.

Il Pinot grigio come interprete identitario, ovvero come testimone di un territorio, è stato subito inquadrato dall’antropologo ex presidente del CAI Annibale Salsa. Fra luoghi e non luoghi, fra identità originaria e in progresso il PG in Trentino non è certo un estraneo, ma nemmeno espressione di una identità originaria. E’ in trasformazione e solo il tempo futuro potrà scongiurare i rischi dell’immobilismo per rispecchiarlo nel territorio. I riferimenti al vicino Alto Adige ed al Ruländer sono stati inevitabili, ma altrettanto incontestabili sul piano della Qualità. Come incontestabile è lo sviluppo mercantile impresso dal Trentino alla tipologia su cui poggia buona parte della sua redditività vitivinicola. Sono gli estremi delle mille sfumature del grigio. In mezzo, ogni giorno più ingombranti, i dati di filiera. Freddi e nascosti, agitati e soffocati. Ma sempre lì.

Valori fondiari azzerati agli anni ’90, produzioni statisticamente aggiustate, mercati in rigurgito, difesa ad oltranza della gallina dalle uova d’oro, scarsa volontà di progettare alternative credibili. Il bicchiere non è più pieno, è mezzo vuoto. Franco Ziliani di Vino al vino e Millebolleblog si è interrogato su grandezza e potenzialità qualitative del PG rispondendosi sconsolato che l’interesse delle cooperative che ne detengono la stragrande maggioranza è per le quantità, con tanti saluti all’identità territoriale. Gli ha fatto eco Angelo Peretti di InternetGourmet, rimarcando il concetto di terroir che interpreta persona e territorio da contrapporre o conciliare alle commodity glocal tipo Prosecco o Pinot grigio delle Venezie. Esempi da prendere con le pinze, aggiungiamo noi, per il vissuto molto sfumato fra territorio (Prosecco/Venezie) e varietà (Prosecco-Glera e Pinot grigio). La varietà rimane uno “strumento” in mano all’operatore ed essendo impossibile una qualsivoglia tutela per il nome di un vitigno, il ragionamento quadrato di un esperto come Peter Dipoli non ha fatto una grinza quando ha coniugato varietà con terreno e microclima che costituiscono un habitat da sigillare con una denominazione tutelata. Più difficili da sostenere le pur appassionate ragioni storiche di Corrado Gallo direttore della Cantina di Roveré della Luna che vive il PG come autoctono in grado di interpretare, eccome, il Trentino pur su vari livelli qualitativi. Si è ricordato come la scelta storica di vendere con profitto vini sfusi (sfuso nobile, si diceva) a cantine come Santa Margherita abbia di fatto lasciato sul terreno il cadavere del territorio, interessando a quel tipo di acquirente essenzialmente la tipologia varietale. Adriano Orsi, presidente di Cavit imbottigliatrice massima di PG, ammette che questo è strumento di redditività, ma che veicola anche denominazioni IGT e DOC destinate a nuovo impulso con la piattaforma informatica territoriale del progetto PICA. Sono seguiti altri appassionati interventi di Gianni Gasperi, Roberto Sebastiani, Tiziano Tomasi, Franco Franchini, Diego Decarli fino ad Albino Armani che sul PG ha costruito buona parte delle sue fortune e che ha riportato al problema antropologico legato alle persone, al senso di appartenenza ed anche del limite.

In definitiva un’occasione per interrogarsi a tutto tondo, con due botti finali di Mario Pojer e Carlo Filiberto Bleggi. Il primo – straziato dalla politica che ha distrutto il sogno dell’uomo/viticoltore – a rimarcare il quadro locale “drogato” dalle plus valenze indotte da un modello che scricchiola di fronte ai dati che vengono da oltre Atlantico non meno che da … oltre Adige dove si è pronti a passare sul carro glocal del Trebbiano, il secondo – impietoso – a sciorinare dati a memoria su come Cavit abbia costruito nel tempo le sue fortune sul PG.

Tempus fugit. S’era fatto tardi, la degustazione di sei campioni e l’abbinamento migliore con il piatto proposto incombevano. Anche stavolta gli assenti hanno perso un’occasione. ‘A nuttata non è passata. Resta un malessere che l’incontro non pretendeva di risolvere. Ci bastava mettere un mattoncino alle fondamenta di un edificio che qualcuno dovrà pur tirar su, prima o poi. Resta la dimostrazione che si potrebbe fare “prima”, serenamente, senza dover rincorrere gli eventi. Progettando. Magari senza inventarsi un’incestuosa campagna pubblicitaria per un Pinot dalle troppe sfumature di grigio per ambire a rappresentare un Trentino che ci piace immaginare diverso, seduti su un arcobaleno.

* – Ringrazio del competente contributo Angelo Rossi, che insieme ad Augusto Marasca, si è prestato a fare da Brand Ambassador di Trentino Wine Blog