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Non andrò a Cembra, quest’anno. So che questa non è una notizia. Ma ogni tanto fare una pubblica confessione fa bene. A tutti. No, non parteciperò, da spettatore e da visitatore come ho sempre fatto, alla Mostra del Müller Thurgau (2 – 6 luglio). La ragione è semplice: sono convinto che il tempo del Müller Thurgau, e con esso dell’ideologia delle varietà, sia superato. Insieme a pochi altri in Trentino, sono dell’idea che il vino per riscattarsi dalla condizione di merce e di commodity debba necessariamente intersecarsi con il luogo di coltivazione e di origine. A partire dal nome. La Valle dei senza nome, titolava qualche tempo un reportage del bravo Andreas März sulla Valle di Cembra. Ecco, la penso allo stesso modo: un territorio per essere ben rappresentato da un vino, se e quando decide di farsi rappresentare da un vino, deve, giocoforza, regalare il suo nome a questo vino. Punto. Solo in questo modo, si può immaginare una tutela efficace del vino e del territorio. Esempi, anche vicini, da Bardolino, a Valpolicella, a Prosecco, e più lontani, da Barolo a Barbaresco, o da Chianti a Montalcino, ce ne sono a iosa. E sono per lo più esempi virtuosi. Ma noi trentini, come sempre, ci giriamo dall’altra parte. Tronfiamente autoreferenziali.
Dunque, per non correre il rischio di contribuire, per quel vale la mia testimonianza, a legittimare ancora una volta l’ideologia sbagliata del varietalismo, funzionale solo alla filiera industriale, la sola che può reggere i livelli di prezzo a cui è precipitato il Mueller a livello internazionale, quest’anno non parteciperò alla Mostra di Cembra.
Ma c’è un altra ragione che quest’anno mi tiene lontano da Cembra. A metà pomeriggio di giovedì prossimo è stato messo in scaletta un convegno così intitolato: “Viticoltura di montagna e vini a residuo zero: quale rapporto? “. Il tema sembra banalmente innocuo. Montagna e sostenibilità: chi non ne parla oggi? Sono due direttrici tematiche, soprattutto la seconda, tanto abusate e inconcludenti da venire perfino a noia.
Ma non è così, il convegno in programma giovedì, per le sue implicazioni politiche e culturali è meno banale di quel che può sembrare a prima vista. Vi parteciperà, fra gli altri, quello che ormai è considerato l’uomo di riferimento del marketing di Consorzio Vini del Trentino. E questo significa una cosa: montagna e sostenibilità saranno d’ora in avanti le chiavi promozionali e comunicative a cui si affiderà ciecamente l’ente di autogoverno del vino trentino. Il convegno di Cembra di giovedì prossimo servirà per consacrare questa linea.
Ne ho già scritto in passato, ma lo ripeto: considero questa scelta altrettanto sbagliata, almeno quanto quella del varietalismo. A cui, del resto, è immediatamente complementare e a cui funge da necessaria stampella. Intanto il tema della sostenibilità, con l’infinita gamma di sfumature più o meno manipolatorie che la accompagnano. Il tema dei vini sostenibili, se è comprensibile e foriero di successi commerciali come plus di un brand aziendale – e qualcuno come Pojer e Sandri lo ha capito prima di altri -, è del tutto ininfluente come marcatore di identità territoriali. Perchè? Semplice: tutti i territori del mondo stanno percorrendo, o hanno già percorso, questa strada; e molti – soprattutto quelli che godono di un microclima più favorevole del nostro – in questo campo sono destinati ad avere più fortuna di noi,Non può quindi essere il richiamo alla sostenibilità, più o meno suffragata dai fatti, un efficace marcatore identitario del Trentino. Semmai è un presupposto prospettico per restare dignitosamente sul mercato.
L’altro filone comunicativo che pare stare sempre più nelle corde di Consorzio Vini – e il titolo del convegno di giovedì lo conferma – è la suggestione della montagna. Già, la montagna. Tralasciamo pure il fatto che l’intero Paese – dall’Etna alla Valle d’Aosta – è denominato da questo elemento geo-paesaggistico. E già questo basterebbe per indurre a qualche prudenza. Tralasciamo anche il fatto che questa aggettivazione è in uso per la DOC TRENTO da qualche anno, e non pare abbia  innescato migliorie significative né in termini di valore né in termini di volumi. Il discorso, però, diventa interessante se lo si approfondisce da un altro punto di vista.

Laddove un vino territoriale è in grado di esercitare appeal, non ha bisogno di declinazioni aggettivanti e qualificative. Qualcuno si sognerebbe di andare in giro per il mondo a proporre il Barolo o l’Amarone come “vini delle dolci colline”? Qualcuno oserebbe sfidare il senso del ridicolo, proponendo il Bolgheri come un “vino marittimo”? Non so. Non credo.

Le qualificazioni e gli esercizi metonimici diventano una tentazione irresistibile, al contrario, quando il richiamo territoriale è debole, quando il nesso eziologico fra vino e territorio è fragile e poco riconoscibile. Come capita in Trentino. Dove, per altro, si consuma un paradosso da manuale: nella percezione generale il Trentino è una terra di montagna. Anzi è montagna. E non c’è bisogno di dirlo o di spiegarlo. Il brand territoriale, fruito in chiave turistica, della nostra “farfalla” è forte ed è forte perché legato indissolubilmente alla montagna e all’orizzonte dolomitico.
Questo tuttavia non accade per il vino. Se il vino trentino fosse generalmente percepito come vino territoriale, non ci sarebbe alcun bisogno di declinazioni specificative. Basterebbe pronunziare la parola “TRENTINO” e nella testa del consumatore si sarebbe già formata l’intuizione visiva della montagna. Ma ciò non accade. Per questo qualcuno, ora, si sente in dovere di esplicitare questo elemento identitario, confondendo la causa con l’effetto. Siccome il vino trentino ha reciso da tempo la sua connotazione territoriale – affidandosi ad un’architettura disciplinare che premia il connotato varietale e internazionale -, qualcuno oggi immagina di poter colmare questo deficit – che è di sostanza e non di forma – con un’operazione comunicativa che rispolvera l’appartenenza all’orizzonte visivo del paesaggio di montagna; lo stesso che non si riesce a comunicare, ammesso che questo sia un valore, sic et simpliciter con la DOC TRENTINO. E’ un paradosso. Il paradosso di chi immagina che le parole siano più forti della realtà. E’ il paradosso di chi si affida alla stregoneria delle visioni immaginative, piuttosto che affrontare la realtà. Perché è più facile fare un’operazione di marketing, piuttosto che mettere mano ai disciplinari e quindi rifondare fin dall’ossatura la DOC TRENTINO in chiave territoriale, mitigando l’influenza del varietalismo e dell’internazionalismo. Perché questo implicherebbe, fra l’altro, una serie di conseguenze sul fronte politico e solleciterebbe inevitabilmente una riorganizzazione territoriale degli attuali oligopoli cooperativi. Una specie di blasfemia intollerabile anche solo a pensarsi. Mentre sono tollerate, perché tanto arrivano fin dove arrivano e comunque non cambiano di una virgola né la realtà né i rapporti di potere,  le innocue operazioni manipolatorie del marketing e della comunicazione.
Per questi motivi, non parteciperò alle varie e numerose inziative messe in campo dagli amici cembrani. E se posso, almeno per la serata di giovedì, suggerisco una gradevole alternativa: il primo appuntamento della rassegna DOC – Denominazione di Origine Cinematografica, al Castello del Buonconsiglio con le Donne del Vino. In serata sarà proiettato l’ultimo docufilm di Jonathan Nossiter, Resistenza Naturale. A differenza del capolavoro di dieci anni fa, Mondovino, questa pellicola, secondo me, è noiosa, retorica, baroccheggiante, conservatrice e perfino poco credibile. Ma resta pur sempre una pellicola di qualità, che potrebbe contribuire ad aprire un’utile discussione anche fra di noi. E poi ci saranno le Donne del Vino, il castello d’estate e i prodotti della Strada del Vino. #Consigliato.