tafazzi

A chi in queste ore fa sfoggio di un certo moralismo distratto di fronte alla sovraesposizione mediatica della vicenda Daniza (“sono ben altri i problemi del trentino e del mondo”), forse è sfuggito un dettaglio che, a mio parere, dettaglio non è.

Dietro alla storia di Daniza e di Life Ursus, ci sono circa 35 milioni di euro spesi ogni anno – dal prossimo anno per fortuna saranno un po’ meno -, dall’agenzia di marketing provinciale. A questi si aggiungono i molti e tanti altri (milioni di euro) sparpagliati nelle pieghe di bilancio della PAT. E, come i primi, anche questi sono stati – e sono – usati per progettare, costruire e accreditare sui mercati nazionali e internazionali del turismo e dell’agroalimentare l’immagine di un Trentino a misura di orso, di capriolo, di aquila, di spumante di montagna e di tutto il resto. Insomma l’idea di un Trentino terra selvaggia e intatta da vendere ai turisti, che si avventurano qui per vivere l’emozione di un’isola felicemente vergine, e ai consumatori di mezzo mondo, che a casa loro mangiano mele “di montagna”, bevono spumante “di montagna”, e respirano il brivido dell’aria “di montagna”.

La vicenda di Daniza, non è solo la penosa storia di una povera orsa sacrificata alla tranquillità delle greggi e delle popolazioni di montagna, è invece la rappresentazione plastica di un modello di sviluppo che il Trentino ha scelto, legittimamente, di seguire e di inseguire. Su cui possiamo anche non essere d’accordo. Ma siccome cosa fatta capo ha, ne abbiamo preso atto fin da quel dì.

Per coerenza, non solo comunicativa, questo format yellowstoniano avrebbe richiesto un epilogo opposto e contrario a quello a cui si è giunti l’altra notte (la teleuccisione mediante narcotico); avrebbe richiesto, invece, un lieto fine disneyano da vendere sulle piazze mediatiche del mondo, in accompagnamento alle mele “di montagna” allo spumante “di montagna” e ai barattoli di aria “di montagna”. Gli ingredienti c’erano tutti ed erano pure gratis: la povera mamma orsa che, senza “quasi” far male a nessuno ma impartendo solo una bella lezione ad uno sprovveduto fungaiolo selfiesta, difende i suoi cuccioli. Un soggetto da cartone animato, la cui sceneggiatura, fra l’altro, era stata scritta anni prima in via Romagnosi, che avremmo potuto montare e vendere in mille modi, purché, appunto, l’epilogo fosse differente.

E invece no. Non è andata così. Abbiamo dimostrato di non solo di non essere capaci di andare a funghi, non solo di non saper convivere con l’orso, ma anche di non saperlo catturare senza ferire la sensibilità, più o meno virtuale, di quelli a cui abbiamo appena finito di vendere il brivido “della montagna”. Ma che montanari sono mai questi? Ma che razza di peracottari sono questi trentini? Immagino si stiano chiedendo giusto questo molti consumatori di mele Melinda e di vino TRENTO.

Per questo sono convinto che quello che è accaduto – o che si è voluto far accadere – possa gettare un’ipoteca su tutta l’architettura di comunicazione – e non solo – sulla quale il Trentino ha costruito le sue fortune negli ultimi quindici vent’anni. Per questo, e al di là della strana morte (accidentale) di Daniza, sono altrettanto convinto, che questa sia una storia seria. Molto seria. Al di là delle apparenze tafazziane.