gambero rosso trentino

di Massarello – Ogni epoca ha avuto i suoi confronti e ogni stagione riserva concorsi a ripetizione. In un Paese fasullo come il nostro possono lasciare il tempo che trovano, con eccezioni più o meno significative, ovviamente. Fra miss e libri, i concorsi per i vini hanno sempre fatto la loro parte, trovando infine nella globalizzazione un insperato nuovo interesse. Tanto maggiore quanto più seri apparivano agli occhi dei consumatori. Oggi si presenta la Guida de L’Espresso, mentre da giorni circolano le anticipazioni del Gambero Rosso. Storicamente il Gambero non è stato il primo, ma è stato quello che meglio di altri ha intuito nuove opportunità e così negli anni scorsi si è affermato come bibbia di riferimento per le produzioni italiane più qualificate, sia per il trade nazionale, sia e soprattutto per quello straniero. E tutto questo lo sappiamo benissimo, come benissimo sappiamo che senza stimoli l’asino non muove la coda. Né che si può pretendere di essere citati, se non si partecipa.

Premesso questo e tralasciando il resto per brevità, la performance dei trentini nelle edizioni dell’Espresso e del Gambero un qualche pensiero lo riserva anche stavolta. Il primo, positivo, va a chi si è distinto anche stavolta, ma incalza l’assunto che al peggio non c’è fine e che il Trentino nel suo complesso è un gambero vero: due passi avanti e uno indietro o, se volete, passi sempre di lato, mai verso un obiettivo. Nel confronto con i cugini altoatesini, infatti, siamo passati dal rapporto di 1:2 ad un tremendo 1:3. Che diventa ancor più pesante se si considera che la nostra base produttiva è quasi doppia di quella dell’Alto Adige, mentre per lo stesso motivo non è il caso di infierire nel confronto con Verona, sia per le dimensioni non paragonabili, sia per la diversa base ampelografia. Basta e avanza un ragionamento regionale, se lo si vuole fare, altrimenti si perderà un’altra occasione per guardarsi dentro.

Sappiamo che le due viticolture e le due enologie sono abbastanza simili, come sappiamo che le due strategie di marketing sono andate diversificandosi soprattutto negli ultimi 15-20 anni. Sappiamo che la politica trentina ha favorito lo sviluppo della cooperazione, mentre oltre Salorno si è lasciata la competizione fra categorie professionali ponendo a tutti un diktat territoriale. Sappiamo che nel 20ennio scorso a Trento 7 mila viticoltori coop sono vissuti benino, che un centinaio di vignaioli hanno fatto molta fatica e che una cinquantina di commercianti hanno chiuso. Sappiamo anche che, se non cambia il mondo, le situazioni di monopolio non vanno bene perché alla fine hanno sempre impoverito la gente e arricchito qualche satrapo. Concetti tanto banali quanto solidi, mi pare. E allora, di che lamentarsi se comunque “del diman non v’è certezza”?

Torniamo allora ai gamberi: se i viticoltori coop, i loro tecnici e le loro cantine esprimessero una qualche concreta adesione ai loro territori di riferimento e se accanto alle politiche del Pinot grigio e dei milioni di bottiglie transoceaniche trovassero il modo (il tempo e gli uomini li hanno) di selezionare qualcosa di cui andare fieri e partecipassero ai concorsi o comunque si confrontassero anche loro, singolarmente, i risultati non tarderebbero a venire anche sul fronte del prestigio. Che nel vino non è cosa da sottovalutare e con grandi vantaggi a costi veramente minimi: dall’orgoglio di appartenenza ad un territorio, merce impagabile, al più tangibile incremento dei valori fondiari andati dimezzandosi, fino al rendimento di uve non drogato dai commerci, ma per quello che valgono e via elencando. Da ultimo, tapperebbero la bocca anche ai critici come noi togliendoci l’argomento degli argomenti, ma sono talmente arroganti che manco raccolgono la provocazione, semplicemente ignorando.

Non si può pretendere che un’inversione di tendenza sia stimolata dalla base dei viticoltori: hanno loro insegnato ad accontentarsi del rateo delle liquidazioni che trovano regolarmente sul c.c.b. e bacchettando sulle nocche i dissidenti. Né si può pretendere (?) che gli input arrivino dai loro tecnici, perché a parità di stipendio è stato loro tolto un carico di lavoro e di responsabilità non indifferente come la commercializzazione delle rispettive etichette, per cui chi glielo fa fare? Restano gli amministratori di queste coop e anche qui, chi glielo fa fare se la stimolante dissidenza è vista come insubordinazione e punita con potenziali ricattucci che metterebbero a repentaglio tempi e importi che il 2° grado suddivide ai conferenti? E restano soprattutto i politici, maggioranza e opposizione, che non sa o fa finta di non sapere. Ma i titoli dei giornali, non dico i testi, almeno li vedono? Hanno notato che questa storia va avanti da anni e che va peggiorando? C’è qualcuno fra questi signori che si interroghi o che interroga?

Mi domando cosa ci stanno a fare, mentre il pensiero corre alla rottamazione.