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Dunque, adesso scriverò alcune cosette che forse procureranno un certo dispiacere ai miei amici produttori e wine lover, insomma a tutte quelle persone con cui condivido la maggior parte del mio tempo.

Nei giorni scorsi ho letto, anche con un certo piacere, l’agile pamphlet (30 paginette che si divorano in pochi minuti) firmato da Enrico Baraldi e Alessandro Sbarbada  “Bianco e Rosso al verde – la rivoluzione del vino” (Edizioni Stampa Alternativa Millelire). Terza opera – dopo Vino e Bufale e La Casta del Vino – della coppia antialcolica più simpatica d’Italia e forse del pianeta.

In passato polemizzai a lungo con loro, poi in qualche modo, come capita alle persone di buon senso, ci siamo riappacificati.

E vengo al dunque. Nel loro ultimo lavoro Baraldi&Sbarbada ribadiscono in forma sintetica ciò che sostengono da molti anni con il tono esacerbato degli estremisti animati da un qualche sacro fuoco. E aggiungono, però, un paio di altre cosette che secondo me meritano una certa attenzione. Una in particolare.

Ma vado con ordine. La tesi di fondo è questa: il vino, poiché contiene alcol, fa male. E’ un veleno. Punto. E la cosa ci può anche stare; che bere vino, in piccole dosi o in grandi dosi, non faccia bene alla salute, ormai è cosa piuttosto risaputa. Il paradosso francese ormai è stato smentito mille volte, anche recentemente (leggi qui), e il palco è caduto. Insomma, mi trovo abbastanza d’accordo con loro: penso anche io che l’alcol faccia, più o meno, male alla salute. Di sicuro non è un farmaco. Dopodiché il vino è anche tante altre cose, che a mio modesto parere, fanno invece bene. Anzi benone. Ma questo è un altro paio di maniche ed è un discorso che esula dalla questione sanitaria.

La simpatica coppia antialcolica, poi, sostiene – di qui il titolo – che l’industria del vino è al verde ed è destinata a crollare nel giro di pochi anni. Non sono un futurologo e quindi non mi addentro in previsioni. Mi pare tuttavia che gli autori partano da una premessa fragile: siccome in Italia il consumo di vino negli ultimi cinquant’anni è crollato, continuerà a crollare fino all’estinzione. Vabbè, ce ne faremo una ragione, mi verrebbe da dire, se i nostri nipoti si perderanno l’ebbrezza del vino. Ma, più seriamente, mi pare di poter affermare che oggi l’industria del vino in Italia gode ancora di buona salute. E questo grazie ad una significativa vocazione all’internazionalizzazione. E’ vero che il consumo pro-capite di vino in Italia, come in tutti i paesi tradizionalmente produttori a partire dalla Francia, è in discesa. E la spiegazione è semplice: siamo passati in mezzo secolo dalla società della fame a quella del benessere – sto semplificando sapendo di semplificare -; da un contesto sociale di originazione contadina, che considerava il vino come parte integrante dell’alimentazione quotidiana, ad una stagione libera dal bisogno di cibo, dove il vino è invece diventato prevalentemente gesto estetico: si beve di meno ma si è disposti a spendere di più. E questo è capitato in tutta l’Europa occidentale. Nel frattempo si sono affacciati sul mercato nuovi paesi con fame e sete di vino, dagli Stati Uniti alla Cina, paesi diventati essi stessi produttori. Il mercato si è globalizzato e mi pare che il settore del vino italiano – come quello francese e spagnolo – abbia saputo prendere la palla al balzo. Insomma, non sarei così ottimista (o pessimista) come sono i nostri due amici che preconizzano un mondo finalmente liberato dal vino entro pochi decenni.

Ma c’è un ma. Fra i tanti numeri citati nel libro, ce ne è uno che mi lascia davvero perplesso. E perfino preoccupato. Ed è quello che riguarda i cosiddetti “costi” sociali e sanitari del vino. Baraldi e Sbarbada sostengono che in Italia questi costi ammontano ogni anno a 22 miliardi di euro. Se questo numero è vero, ammetto che è spaventoso. Spaventoso soprattutto se messo in relazione con il giro d’affari movimentato direttamente dal settore vino, che ammonta invece  a circa dieci miliardi di euro (stima Coldiretti 2013).

Se l’affermazione dei due autori è corretta, e mi piacerebbe che esplicitassero seriamente e con precisione filologica le fonti di questa loro asserzione, allora davvero per tutti noi, che in un modo o nell’altro ci occupiamo di vino, forse è arrivato il momento di fare qualche riflessione. E forse anche di cambiare mestiere. Lo dico, e lo scrivo, con un senso di acuta e responsabile preoccupazione.