abbecedario trentino vino
Ho letto  il post di Armin Kobler e devo dire che si conferma per quell’uomo che è: tenace e talentuoso, ottimo sudtirolese. Un passo avanti della media dei trentoni (lasciami dire così, in modo da anticiparti le mie conclusioni).
Armin, infatti, si permette di dare per scontato il cappello “Sudtirol” che comunque unisce tutti i produttori, tutti i vini, di tutte le loro zone. Chi non lo fa, sono affari suoi. In Trentino non è esattamente così, anzi, direi che negli ultimi 15 anni si è consolidata una tendenza opposta: quella della fuga dal cognome comune “Trentino”, (usata soprattutto dai vini cooperativi), sostituita soprattutto dal Vigneti delle Dolomiti (Vignaioli, ma non solo).
Tu sai che vengo dalla vecchia scuola, dove l’origine doveva prevalere sull’indicazione della varietà di vite, altrimenti non si sarebbe mai riusciti ad affermare questo territorio come zona vocata alla qualità. Sappiamo che la varietà di vite non è tutelabile, perché patrimonio di tutti, ovunque.
Nel periodo considerato, il Trentino non solo non è fallito (rispetto ai vicini), ma ha addirittura garantito eccellenti rendimenti ai viticoltori perché la si è buttata essenzialmente sui soldi. Tanti e subito. Concentrando (per oltre il 90%) l’offerta di uva presso le Cantine sociali e la vendita del vino (integrato da provenienze extra provinciali) in due-tre grossi complessi cooperativo – industriali in grado di stare sul mercato globale. Al mercato globale il “Trentino” non può interessare perché interessa solo la varietà (es. Pinot grigio).
Quelli di Bolzano, pragmaticamente, hanno seguito il modello classico, rinunciando alle acquisizioni da fuori provincia tipiche degli anni ‘70-‘90,  e puntando tutto sull’origine “Sudtirol” (che fa da cappello per varietà e zone minori), ovviamente rinunciando al mercato globale, ma restringendolo ad alcune aree europee, segnatamente quelle dei loro turisti. Pur con difficoltà, anche loro guadagnano i loro soldi.
La grande differenza sta qui: loro hanno costruito la casa partendo dalle fondamenta e mettendo mattone su mattone e sono fabbri della loro fortuna. Il Trentino, invece, ha preso un’interessante scorciatoia mostrandosi efficiente e puntuale (sul finire degli anni ’90) nello sbarcare in nord America con tipologie adatte ad un mercato senza competenze enoiche, ma sensibile al fascino italiano e al prezzo; sappiamo che ci è andata bene e la fortuna sembra continuare (USD ai minimi storici, ripresa economica americana, ecc.). Sarebbe sciocco, quindi ammazzare la gallina dalle uova d’oro.
Ma ancor più sciocco è non riprendersi il mercato locale, nazionale ed europeo dove conta avere un’origine seria ed affermata. Abbiamo un territorio adatto, varietà moderne e uomini in grado di fare qualità (San Michele, ecc.). E allora perché non si fa?
Risposta (mia) da un milione di dollari/euro: perché il sistema trentino è “fragile” e i manager lo sanno bene. Vivono stretti nelle spalle (e nelle chiappe) perché qualsiasi refolo può buttar giù il castello (pensa: se avessero investito in Russia, mela docet…). Discorso lungo e complesso, ovviamente.
Concludo collegandomi al tema posto da Armin: in Trentino un discorso su varietà e zone si può anche fare, per fare accademia. La morale è che per oltre il 90% dei casi (vigneto cooperativo), l’indicazione (da 15 anni a questa parte) è una sola: Pinot grigio ovunque!
E questo per il motivo di cui ti ho detto sopra, dilungandomi: parlare di varietà e zone comporterebbe aprire il discorso sul ruolo delle cantine sociali di primo grado, quelle cioè che in questi anni sono state trasformate in “centri di raccolta” che scaricano agli oligopoli, assieme al vino, anche tutto il “sapere” accumulato dalle generazioni precedenti. Chi glielo fa fare di rompersi la schiena per il territorio, le varietà diversificate, la qualità, ecc.?
Ciò non di  meno, io e Cosimo e pochi altri, restiamo convinti che – come i nostri padri e quelli di Bolzano (per non andare a Verona) – la battaglia per il territorio (con le sue molte tipologie) meriti di essere perseguita. Almeno per sentirci a posto con la nostra coscienza.