di Angelo Rossi – Bello, interessante, vale la pena andarci anche se fa caldo. È la sintesi della fiumana che, sfinita, lascia l’Expo 2015 di Milano, la stessa impressione che resta anche dalla grancassa mediatica nazionale. Di quella estera chissenefrega. Di base non s’è buttato tempo e denaro e l’esperienza si mette fra le positività. A mente ristorata, tra i fasci di luce si allunga, però, anche qualche ombra.1

Come dire che accanto al sospiro di sollievo – perchè Milano è riuscita nel miracolo di evitarci l’ennesima figuraccia mondiale lasciando nei visitatori nazionali anche un moto d’orgoglio per l’efficienza dei collegamenti stradali e ferroviari, per gli ampi spazi pulitissimi sempre (neanche un mozzicone fra la marea di gente, a dimostrazione che se ti fanno respirare valori tutti li sanno mantenere), per le risposte puntuali all’esigenza di frescura e poi i padiglioni, uno più bello dell’altro, per cui molti decideranno di tornare per godersi ciò che le inevitabili code davanti ai più gettonati hanno fatto saltare – accanto a tutto ciò, dicevamo, c’è spazio per un filo di coscienza critica in barba a politicanti e portaborse che ti bollano per disfattista.

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Così, salmonando controcorrente, la cosa più macroscopica che balza all’occhio è che una parte degli allestimenti appare fuori tema. A cominciare dall’imponente edificio Italia,

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architettonicamente avveniristico, ma giocato perlopiù su bellezze paesaggistiche e monumentali da mozzafiato per l’effetto moltiplicatore dei cubi a specchio che si susseguono nel percorso.

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L’agricoltura appare relegata, come è nella cultura nazionale, tutta industria e terziario più o meno avanzato. Il messaggio agricolo, quello che si rifà al tema dell’Expo – nutrire il pianeta – è affidato a poche pompose frasi a decoro di bianche pareti .

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C’è un plastico del Continente senza l’Italia

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e un’Italia dove in ogni Regione crescono le piante-simbolo: il mirtillo del Trentino e la segale dell’Alto Adige.

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Non si vedono mele e i pampini della vite sono del vicino Veneto. Siamo il Paese più biodiverso, c’è scritto, ma un segno della ricerca e della sperimentazione agraria in corso non si vede. Concetto che invece troneggia nel padiglione più visitato del Kazakistan: almeno un’ora di fila per scoprire storia e geografia del nono Paese più grande del mondo, dagli uomini delle steppe

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disegnati al momento dalle mani di un’abile artista, alle selezioni delle graminacee

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passando attraverso l’immane sforzo di rimettere l’acqua nel Lago d’Aral e ripopolarlo di storioni per il ghiotto Beluga.

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Altri, nel recente passato come fa presente una disincantata presentatrice, hanno fatto lo scempio di prosciugarlo mentre loro lo ripristineranno, anche se non in tempo per il prossimo Expo 2017 di Astana. Viaggiando infine come a bordo di un drone in tridimensione, su un’enorme piattaforma mobile fra terra e cielo, resta veramente l’emozione d’un Paese con i piedi nel passato e la testa nel futuro.
Anche Israele, quasi di fronte, vanta il merito di aver rinverdito il deserto prima irrigandolo a pioggia, poi scoprendo il più risparmioso sistema a goccia, regalo a tutta l’umanità. Peccato, ci sia concesso, che agli Expo manchi sempre la Palestina che qualche diritto sul Giordano e sul lago di Tiberiade dovrebbe pur averlo, non foss’altro che per mettere loro in mano una zappa, lasciando finalmente a terra le pietre dell’Intifada.
Interessante il confronto fra il granaio dell’infinita Russia (pur connotata ancora dalla coda lunga delle economie di piano, appare ciononostante più vicina al comune sentire)

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rispetto allo strapotere tecnologico degli USA che ti accolgono in un abbraccio dei brand agricolo-alimentari dominanti, protetti da un’impressionante parete verticale di pannelli mobili fittamente coltivati con ogni bendiddio di verdure.

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Più scontati, molti dei padiglioni sudamericani, asiatici e africani, ma con sorprese che impediscono di soprassedere e che lasciamo alla scoperta di chi all’Expo ci andrà prossimamente.

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Tornando in Europa e girando solo nottetempo sopra il grande padiglione tedesco (coda sempre troppo lunga),

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 vista una briosa Francia,

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percorso il fresco sentiero di latifoglie proposto dall’Austria, data un’occhiata alla Svizzera attirati dal suono dei lunghi corni alpini che anticipano la loro cultura casearia non meno dell’ingegnosa regimentazione delle loro acque

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 e non potendo dire altro dei restanti Paesi per brevità, si può chiudere con la performance trentina. Sta su un lato del Cardo non lontano dall’incrocio col Decumano e dirimpetto allo spazio dell’Alto Adige.

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L’altra sera c’è stata l’inaugurazione con il Commissario all’Expo Sala che ha trovato il tempo anche per il piccolo Trentino, attorniato da mezza Giunta provinciale (Rossi, Dallapiccola, Mellarini), dirigenti pubblici e privati, funzionari d’ogni ordine e grado, giornalisti, cameraman e fotografi tutti rigidamente autoctoni, come la Banda di Pozza (con vessillo ladino, ma senza suonare l’inno al Trentino).

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L’allestimento, come per Palazzo Italia, anche qui pare fuori tema. Non si nutre il pianeta con una banale e costosa riproduzione a piastrelle di un pezzo di Dolomiti (saputo che non si sarebbero potute bagnare, tanto valeva farle in carton gesso), nè è sufficiente l’impiego del legno di Fiemme per lo sfondo: sono ambedue più riconducibili al turismo che ai bisogni alimentari.

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È mancata la presenza di FEM, (dimenticata anche nei discorsi ufficiali), la nostra realtá più prestigiosa a livello internazionale sui temi dell’agricoltura, dell’alimentazione, dell’ambiente, della ricerca e della sperimentazione, per non dire della formazione. Altri l’avrebbero ben altrimenti sfruttata. Peccato. Come ciliegina sulla torta, il catering milanese all’inaugurazione insisteva convinto che quel finger food di trota salmonata (Astro è fra i main sponsor) era salmone, eccome! Mentre le bollicine di Alpe Regis e Altemasi venivano altrettanto cordialmente proposte come Prosecco… Il tutto a poche spanne dai massimi vertici, evidentemente distratti da altro o adusi a situazioni considerate ineluttabili nella bolgia della globalizzazione.

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Disfattismo? Mah! Ci sono sempre le palline di gelato fiordilatte trentino che pare abbiano ingolosito qualcuno di Shanghai o via di là, tanto per continuare a mungere.
Per fortuna, nell’edizione nazionale del Corsera, due intere pagine ricordavano quel giorno i pomi nonesi conservati nelle celle ipogeee (vicino a delicati dati digitali), le malghe, parchi e gastronomia in un teatro della biodiversità, fino alle moderne tecniche che contrappongono parassiti a parassiti in una ricerca che parte dalla natura, con tanto di identikit di Edmund Mach. Consoliamoci quindi, e andando o tornando all’Expo non dimenticare il padiglione Zero subito all’inizio del Decumano (la prima emozione), mentre – vicino al Trentino – si può lasciare al libero arbitrio l’Italian Wine Pavillon, con migliaia di beccucci che per 10€ ti spillano 3 assaggi di vini noti e meno noti.

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