CALDARO

Ghino di tappo m’incita a raccontare qualcosa di più sulla vicenda del Caldaro, come protagonista dell’epoca in cui quel vino ottenne la DOC. Una vicenda ereditata dai veri protagonisti: il cav. Ezio Cesconi direttore dell’allora Cantina di Lavis-Sorni-Salorno, il dr. Franco Endrici, presidente del Comitato vitivinicolo e soprattutto Ferdinando Tonon che del CVP era la mente operativa. Molti altri sullo sfondo, tutti impegnati però – a cavallo degli anni ’60/’70 – ad impostare la nuova tutela per l’Origine dei Vini di Qualità prevista dal DPR 930/63 che istituiva appunto le DOC in Italia.
La protezione della denominazione “Caldaro” ha radici storiche tant’è che ci aveva pensato già il fascismo nel 1931, ma fu nel 1970 che si approdò al Decreto valido ancor oggi con le modifiche dell’ ’81, ’93, 2002, ’10 e ’11.
Negli anni ’60 il Kalterer o Kalterersee era il vino più importante dell’Alto Adige, piccola provincia di un’Italia che cominciava a contendere alla Francia il primato vinicolo mondiale. Da Bolzano partiva più della metà dell’export nazionale e il vicino Trentino assicurava i rifornimenti necessari. Senza regole più stringenti era sufficiente, per i vini tipici, che corrispondessero a quelli originari per contiguità territoriale, per le caratteristiche pedologico-climatiche e varietali, per le tradizioni colturali e di vinificazione. Tutte caratteristiche che permettevano alla Schiava trentina (nord Avisio) di migrare oltre il confine di Salorno dove si trasformava in Kalterer. Sapendo che con la DOC questo mercato avrebbe avuto fine, con gran soddisfazione delle Cantine non interessate e della popolazione di lingua tedesca che solo pochi anni prima si era schierata con il “Los von Trient” (via da Trento), la questione divenne subito etnica assumendo i più accesi toni della lotta per l’autonomia e anche dell’indipendenza del Südtirol. Il vino conteso divenne così simbolo, come nessun altro elemento, di un comune sentire delle genti di qua non meno che al di là del Brennero.
In questo contesto storico-ambientale i trentini si divisero: politicamente prevaleva il bisogno di stare uniti a livello regionale, mentre dal punto di vista vitivinicolo si dovette conciliare la politica della Qualità, che significava DOC Trentino, Teroldego rotaliano, ecc., con la salvaguardia delle produzioni di Schiava soprattutto della Valle di Cembra. Questa valle, che poggia sulla piattaforma porfirica che da Cembra attraverso il Monte di mezzo (Caldaro) si estende fino a Merano, era pressoché tutta investita sul fronte a mezzogiorno con Schiava. La sua qualità era semplicemente divisa fra Schiava “sotto la strada” e “sopra la strada”. Per dire che negli anni successivi sopra la strada si pose a dimora soprattutto il Müller Thurgau, mentre la Schiava rimaneva sotto.
Una viticoltura eroica su terrazzamenti, povera come povere erano le periferie agricole trentine. La questione di base era: com’è possibile che in ambiente analogo e in qualche modo contiguo, le stesse uve ottenute con doppia fatica venissero remunerate la metà solo perché ribattezzate in Caldaro dagli acquirenti altoatesini? I motivi per un impegno socio-economico c’erano quindi tutti. Ciononostante, nel Comitato regionale che doveva esprimere il parere delle rappresentanze locali, ci fu qualche trentino che votò contro l’allargamento della zona di produzione del Caldaro in provincia di Trento. Motivi? Sia per correttezza nei confronti di Bolzano dato che Caldaro sta in Alto Adige, sia forse per … lungimiranza, dato che quella sarebbe comunque stata una denominazione in mano ad altri.
A Roma però, Trento era molto potente (DC) cosicché il decreto presidenziale incluse anche i Comuni cembrani e Roverè della Luna. Successivamente si ottenne un allargamento all’unghia pedemontana di Mezzacorona e alla zona dei Sorni di Lavis. Questa dei Sorni è una storia nella storia. Nelle more della diatriba con Bolzano, infatti, con un colpo di mano per Sorni venne chiesta una DOC specifica, anzi, al Ministero di domande ne giunsero due in contemporanea, una della CCIAA di Trento e una del CVP che non intendeva farsi scavalcare in prerogative che riteneva di propria competenza. Altri tempi, altri uomini. Alla fine i produttori di Sorni potevano scegliere se utilizzare per la Schiava la DOC Sorni o la DOC Caldaro. Due aborti, alla luce dei tempi successivi, ma per allora certo utili.
Non finì qui. Sconfitta a Roma col decreto del ’70, Bolzano masticò amaro e cercò istanze superiori per la tutela di un diritto che a ragione o torto credeva infranto. Minacciò di appellarsi persino all’ONU (tutela delle minoranze), con l’Austria non ancora nella UE, ma trovò facile sponda nella Baviera di Franz Josef Strauß che patrocinò la causa del Kalterer solo altoatesino in sede europea. Fu così che l’Italia stessa venne condotta sul banco degli imputati e il CVP affiancò l’Avvocatura dello Stato con un eccellente esperto di diritto internazionale. La sentenza fu tombale, favorevole all’Italia e quindi a Trento. All’epoca, fu una delle rare cause vinte dal nostro Paese. Una vittoria in punta di diritto che aveva sfiancato le due parti, tant’è che nei corridoi si sentì dire da un trentino: ora che il Caldaro è definitivamente anche nostro, metteremo la DOC nel cassetto perché la nostra strategia poggia ormai sulla denominazione Trentino, cosicché il Caldaro ve lo potete tenere!
Ma Bolzano non si fidò e cambiò strategia, mettendo la sua Schiava/Vernatsch sotto il cappello della DOC Alto Adige/Südtirol. Fu la fortuna di quel territorio e anche la fortuna del Vernatsch che dopo lo sbandamento oggi vive ancora una fresca primavera e con spazi interessanti per lo stesso Kalterersee non più insidiato dai trentini.
Sappiamo che Trento ha imboccato altre strade per remunerare i viticoltori, quelle della globalizzazione, dove una battaglia come quella del Caldaro non troverebbe nemmeno spazio. Il livello delle grandi decisioni va ormai oltre i Consorzi e i produttori locali; ma ciò non impedirebbe di progettare e sviluppare qualcosa di più vicino sia ai produttori che ai nostri consumatori.