Chef-Rubio

Qualcuno fra i lettori più acuti è in grado di immaginare, anche solo lontanamente, a cosa potrei alludere se usassi espressioni del tipo “Serendipity nel giardino dei miei sogni” oppure “Un indovino mi disse” o ancora “Riflessione su dove vorrei essere, qui”? E allora? Ci siete arrivati? No, non sto alludendo né al capolavoro di Tiziano Terzani, né ad un manuale sull’arte della felicità casuale, né ai due problemi fondamentali dell’etica secondo Schopenhauer.
No, semplicemente, sto leggendo ad alta voce il menù d’inverno di un noto e patinatissimo ristorante milanese, che non cito perché immagino la mia menzione possa non essergli gradita.
Ecco, quando leggo cose di questo genere mi dico: per fortuna Chef Rubio c’è.
Scrivo queste cose, perché stamattina su Facebook sono stato coinvolto (tecnicamente dovrei scrivere taggato) in un leggero e gustoso battibecco fra due cari amici. Al centro della conversazione, la recente polemica di Gabriele Rubini AKA Chef Rubio, nei confronti del Food Star System (“Un mondo che mi fa schifo e con cui non c’entro un cazzo). Al di la dei toni ruvidi e del bersaglio (Gualtiero Marchesi) su cui ciascuno si è fatto la propria idea, trovo che Rubio abbia non cento, ma mille ragioni. Provo a spiegarmi: il cibo – quello della televisone, dei social, dei ristoranti stellati o aspiranti tali -, oggi, è diventato prevalentemente un fenomeno di comunicazione, che vale non in quanto cibo, ma per i valori, per lo più estetico – ideologici, che riesce ad evocare nel consumatore affamato di esperienzialità oniriche. Il cibo non è più cibo, ma è metacibo. La cucina non è più cucina, ma è metacucina. Una specie di esclusivo cerchio magico per pochi iniziati, dove si mangia poco e si sogna molto.
In una recente intervista a Dogospia, Arrigo Cipriani, quello dell’Harri’s Bar per intenderci, mica una mezza pippa, alla domanda cos’è la cucina italiana oggi? rispondeva “È diventata la brutta copia di quella francese. Destinata a perdere. La mania del designer, dei locali scintillanti senza nessuna sostanza. Come quando vado in una camera d’albergo e mi propongono una camera tappezzata da copie del Tintoretto, il lavandino piccolo e stretto, ma bello da vedere. Mi faccio cambiare stanza. Io voglio dormire in un letto, non sulle pareti o in bagno. Voglio essere avvolto da lenzuola di lino croccanti, cuscini e materassi di qualità. Quello è lusso. Non i quadri”.

Chef Rubio, pur anche lui protagonista delle scene televisive e digitali, con la sua sanguinaria e sanguinolenta cucina popolare, ha introdotto, sta introducendo, un cortocircuito democratico nello star system del food nazionale. Il suo mettere grevemente le mani, e la bocca, in pasta e perfino nelle interiora, è un gesto dirompente ed eversivo. Rivoluzionario: perché fa saltare i paradigmi consolidati del metacibo e della metacucina. E ci fa tornare, finalmente, al cibocibo. Al cibo da mangiare. Semplicemente da mangiare.

Un po’ come, lasciatemi scivolare su un terreno che mi è più congeniale, quando dopo una tornata di degustazione di grandi vini – etici, sociologici, estetici, territoriali e tutto quello che volete -, entri in un’osteria e ordini il vino della casa in caraffa. Magari un Casteller. Effinalmente ti rilassi, bevendo un bicchiere di vino. Perché, semplicemente, hai voglia di bere un bicchiere di vino. Punto.