È davvero un sacco di tempo che non affronto più la questione del disastroso marchio commerciale TRENTODOC; una roba che non si è mai saputo bene cosa fosse: non un brand aziendale, non un’appellazione territoriale. Qualcosa di inutile, di pleonastico e di confusionario appiccicato lì, sopra le bottiglie, in aggiunta ai primi due elementi essenziali e autosufficienti per qualsiasi vino al mondo: il marchio aziendale e la denominazione TRENTO (D.O.C.).
Non me ne occupo più da parecchio tempo, perché mi sono stancato di abbaiare alla luna. Perché ho imparato che a volte le battaglie, e anche le guerre, si perdono e bisogna rassegnarsi e capitolare. E poi perché mi sono reso conto che attorno a questa disastro annunciato, nel frattempo si è coagulata un’egemonia culturale – dietro cui ci sono anche un po’ di soldi bonariamente elargiti da mamma Provincia – che ha penetrato le convinzioni e i comportamenti tanto dei piccoli quanto dei grandi produttori. E allora va bene così. Del resto, le mie critiche, anche feroci, del passato non hanno portato a nulla: nessuno fra i cerimonieri del potere costituito si è fatto domande, nessuno fra i chierici, i chierichetti e i cortigiani che bazzicano dalle parti di Trento e di Palazzo TuttaFrutta, ha voluto cogliere l’occasione per rimediare ad uno sbaglio, che è stato prima di tutto uno sbaglio della politica e dell’ex assessore all’Agricoltura Tiziano Mellarini. Sebbene, probabilmente, si sia trattato di un errore allora, era il 2007, compiuto in buona fede. E il solo risultato ottenuto in questi anni, da me e dal blog – e dai suoi lettori –, è stato semplicemente quello di essere banditi dalla vita civile e comunicativa della denominazione TRENTO. Il mancato invito, a dicembre 2015, alla manifestazione Bollicine sulla Città, ne è stata la prova.
Però oggi ci torno su. Sono costretto a tornare su questo brutto pasticciaccio di via Santissima Trinità. Lo faccio perché su una delle più autorevoli e rigorose riviste mondiali di settore, Wine Enthusiast, una scrittrice e giornalista prestigiosa come Kerin O’Keefe, grande conoscitrice ed estimatrice del vino italiano, è caduta essa stessa nella trappola di questa menzione inutile e confusionaria che si chiama TRENTODOC. La notizia dell’infortunio è stata rilanciata stamattina dall’amico e collega Angelo Peretti sul suo sempre aggiornatissimo InternetGourmet. Sotto il titolo Trento e Trentodoc, confusione mondiale, il collega veneto toglie letteralmente la pelle agli ideatori e agli ostinati perpetuatori di questo inutile marchio #nonsisacosasia:

“Ecco, adesso la confusione è totale, assoluta, drammaticamente globale. Da sempre sostengo che la scelta di creare per il metodo classico della doc Trento un marchio Trentodoc è stato un errore, perché in questa maniera si è offuscata l’origine territoriale del vino, la si è mascherata. Ma se anche un’attentissima osservatrice della realtà vinicola italiana come Kerin O’Keefe arriva a confondere denominazione e marchio, allora siamo davvero messi peggio di quel che pensavo”  (continua a leggere)

Lo scrive un uomo moderato, equilibrato, quasi doroteo – e lo dico con ammirazione e stima -, come Angelo Peretti. Che non è Cosimo Piovasco di Rondò. Che non è Tiziano Bianchi. E’ Angelo Peretti. Che a questo punto deve aspettarsi, anche lui, come tutti i dissenzienti un bel posto nella lista di proscrizione stilata con il bilancino  dagli yes – man di Palazzo TuttaFrutta.