Narra la cronaca inglese come ieri in sede UE il conservatore Boris Johnson sia stato ridicolizzato dal nostro ministro Carlo Calenda sulla questione Brexit. In breve: Johnson ha risposto piccato a Calenda che gli elencava i guai cui stavano andando incontro, che allora ci sarebbero stati guai anche per il Prosecco venduto in Gran Bretagna. Calenda ha avuto buon gioco nel ribattere che per loro la Brexit avrà un riflesso negativo su ben ventisette mercati comunitari e non per uno solo. Fine.

A noi del vino piace che Prosecco sia assurto a simbolo assoluto del dinamismo commerciale di un Paese come l’Italia da anni in stagnazione.

Di Prosecco si è parlato in lungo e largo anche a Report, in TV3 lunedì sera. A parte che il servizio sia parso sostanzialmente corretto per il taglio che ha la trasmissione e per la molteplicità delle sfaccettature dell’argomento, interessa qui riportare un accenno nel passaggio riassuntivo della conduttrice Milena Gabanelli che forse è sfuggito ai più. Nel proporre di trasformare tutto il territorio del Prosecco in un grande bio-distretto (per superare anche il problema della salubrità per gli abitanti) la Gabanelli fa presente come la conversione al biologico sia conveniente per tutti… sta convertendo, infatti, il Ferrari e il 50% del Franciacorta…(verso il minuto 36 visibile su RAI replay).

Orbene: non si è citato Trentodoc (e men che meno Trento), né una percentuale del territorio in conversione (dati non disponibili? Certo non divulgati), ma la sola Real Casa cui va dato merito, ovviamente.

Potremmo finirla qui e goderci le Bollicine sulla città, tenendo la testa nella sabbia.

Invece credo valga la pena imparare qualcosa da questi messaggi, siano essi provenienti dal Prosecco, come da Ferrari. La questione gira attorno al territorio Trentino, i cui vini tranquilli – a dispetto di una rispettabile e spesso eccellente qualità – perdurano nella stagione dell’oblio, orfani come sono di un cognome (Trentino, appunto) che stimoli orgoglio di appartenenza ai produttori e prestigio fra i consumatori. Per gli spumanti locali (e qui la qualità è indiscussa) il cognome ufficiale – ossia di Legge – sarebbe Trento, e che per motivi beceri si è storpiato in Trentodoc, marchio consortile. Ma l’operazione non funziona, nonostante gli sforzi di tutti e le generose iniezioni di pubblico denaro. A dimostrarlo, dopo quasi tre lustri (un privato sarebbe fallito da tempo) i dati della non-crescita in quantità e valore, eccezion fatta per lo stracitato brand Ferrari che in valore si consolida, ma non ha interesse assoluto ad incrementare le quantità.

Vero è che la quarantina Case aderenti al Consorzio si dichiarano soddisfatte, dicono che va bene così, che stanno facendo tantissimo con manifestazioni ed eventi, ecc. ma ripeto, i dati sono quelli, la notorietà è per Ferrari e al Trentodoc restano i fronzoli.

Il nocciolo, mi pare, sia ancora nella convinzione dei vertici e dei soci che “Trento” e “Trentodoc” siano in definitiva equivalenti ed equipollenti. Ma che Trentodoc possa essere finanziato (Consorzio), mentre Trento (D.O.C., ossia di tutti coloro che rispettano il disciplinare) invece no. Sottigliezze? Nemmeno per sogno, sia perché di pubbliche risorse si tratta, sia perché il territorio è rimasto al palo.

Perseverare è diabolico, soprattutto perché si sono placate le coscienze critiche che hanno un rigurgito di stizza solo nei confronti di chi mette il dito nella piaga, di chi chiederebbe di discutere la questione per raddrizzarla e permettere uno sviluppo del marchio territoriale Trento al posto di quello consortile. Insomma, un pasticcio in salsa trentona che non si vuole affrontare per non dover ammettere di essersi infilati in un cul de sac.

PS. Un pensiero, a questo punto, andrebbe anche all’ex presidente vegano del Consorzio Vini, bloccato di fatto sull’idea di convertire in bio buona parte del vigneto Trentino.