È con una certa curiosità che torno a Identità Golose, la grande kermesse internazionale che ospita gli chef più famosi. Il tema di quest’anno è “La Forza Della Libertà: Il Viaggio”, ma siamo a Milano e la regione ospite è la Lombardia. Una contraddizione? Forse. Ma ogni viaggio, per quanto ci si avventuri lontano, si conclude con un ritorno al punto di partenza.

E più che il tema del viaggio, mi pare che il tema sia proprio quello del ritorno, ma di un ritorno contaminato dall’esperienza fatta, che porta con sé ingredienti, cose e anche persone. Infatti, dice Paolo Marchi, ideatore di Identità Golose, “guai a non lasciarsi contaminare dalle idee” e avverte: “non possiamo usare degli ingredienti e rifiutare chi li produce”.
Si parte con Giovanni Santini, del ristorante il Pescatore di Canneto sull’Oglio, lombardo di Mantova (e quindi già di una terra al confine con Veneto ed Emilia, a un passo dal Trentino). È un quarantenne brizzolato, simpatico, che viene a stringere la mano a chi è in prima fila a seguire la sua esposizione. Sembra molto ben piantato nella sua terra, infatti tende a sottolineare il suo legame con la campagna e parla del viaggio di ritorno, che serve per razionalizzare l’esperienza fatta. Il piatto che presenta è una sintesi del viaggio e della campagna. Si tratta di un “primo piatto non di pasta”.
Sono dei petali di carote (tagliate a lunghe strisce con un’affettatrice), riempiti alternativamente di una mousse di melanzane e di una mousse di burrata. Su quelli con la burrata vengono adagiate delle fettine di carpaccio di branzino marinato; sugli altri, quelli con la melanzana, viene costruito un complicato bouquet di vegetali: pomodorini confit, taccole, broccoli, zucchine, finocchi, per finire con un cubetto di mango. Il tutto accompagnato da una maionese allo zenzero, cioè una normale maionese cui è stato aggiunto il liquido risultante dalla cottura dello zenzero in aceto di vino bianco e vino bianco.
Piatti troppo bislacchi non trovano spazio nel suo ristorante: ogni variazione deve rimanere nella continuità, deve esserci uno stile riconoscibile, è importante affrontare la cucina con umiltà. Anche il suo modo di fare tradisce una giusta dose di umiltà, merce rara ed apprezzabilissima tra le primedonne stellate.

Tra uno chef e l’altro, l’assessore regionale all’agricoltura Gianni Fava saluta i partecipanti e dice che per catturare valore il futuro dell’agricoltura (e di conseguenza del vino, aggiungo io) non è nella produzione di commodities ma nella produzione di qualità distintive.

Davide Oldani parla di sangue. Del suo, in prima battuta, e poi di quello di maiale, che alcune ricette vogliono nella cassoeula, tipico piatto della tradizione milanese.
Il suo sangue è stato analizzato per mezzo di una centrifuga, in occasione di un piccolo intervento chirurgico. Così, lui ha pensato di utilizzare la stessa tecnica per separare l’albumina dalle altre componenti del sangue, stavolta di vitello.
La sua cassoeula vuole recuperare il gusto della tradizione ma con la leggerezza della modernità. Anche i piatti, intesi come i contenitori del cibo, sono un po’ particolari: ispirato dalla figlia di neanche tre anni ha disegnato un piatto da leccare, al centro della composizione. Gli altri “piatti” sono ottenuti da cocci di ceramica rotti prima della cottura, ognuno diverso dall’altro, serviti su tavoli fatti in legno d’olmo, simbolo di San Pietro all’Olmo, dove si trova il suo ristorante D’O.
La cassoeula diventa quindi una salsa civet, verza e cipolla da leccare dal piatto. Sugli altri cocci vengono disposti due pezzi di puntina e guanciale, una parte sifonata di verzino e cotenna, poi una foglia di verza disidratata e poi fritta.
Il resto del sangue, l’albumina, diventa un foglio di meringa, servito con sopra una ganache di cioccolato e del caviale.
Poi, la gelatina ottenuta dal brodo di carne, fatta essiccare in un pentolino antiaderente per ricavare una cialda. Conterrà una mousse al caffè, ottenuta dall’infusione di latte con i chicchi di caffè, completata da un pochino di polvere di caffè e dello zucchero croccante.

A Identità di Champagne, la chef Caterina Ceraudo, calabrese, enologa, propone una ricetta pensata per l’abbinamento con lo champagne Ruinart Rosé. Si tratta di un piatto ispirato alla Calabria d’inverno, tra piogge, umidità e sottobosco. Per ricordare le rose piantate all’inizio dei filari ha preso del carpaccio di bovino adulto di razza podolica e l’ha marinato in infuso di rose, poi per riprodurre i sapori di humus e terra ha creato una crema di topinambur cotto in brodo di sarmenti e poi ne ha usato la corteccia seccata e affumicata. Ha aggiunto l’acetosella, con il suo sapore citrino, un olio aromatizzato al lampone e un leggerissimo tocco di caffè. Il gioco è ritrovare questi profumi (lamponi, agrumi, rose) nello champagne; e infatti l’abbinamento è riuscitissimo.

Fuori, Stefano Fagioli della trattoria via Val di Ripalta per East Lombardy distribuisce un ottimo, e molto classico, piccolo panino con una fetta di cotechino e verza ridotta quasi in crema. La pasta Felicetti propone il monograno Cappelli con tè verde e bottarga (buonissimo) e i fusilli con il burro affumicato. Selecta propone, tra l’altro, una selezione di ottimi salumi del Podere Cadassa.

In pausa tra uno stand e una conferenza, Baudelaire ammicca dalla parete di un cesso: “Ebbri … bisogna esser sempre ebbri … di vino, di poesia o di virtù, a piacer vostro … ma ubriacatevi!”. E quindi passiamo ai vini.

Fontanafredda propone, tra l’altro, un Alta Langa, il Vigna Gatinera Brut, cru di un vigneto a Serralunga. Pinot nero in purezza, con bellissimo perlage e una morbidezza ben sostenuta dall’acidità. Sentori di frutta bianca, pesca, frutta secca.
La Sezione Wine Hunter vede la presenza di trenta etichette di Trento a cura di Trentodoc. Tra le novità di questa edizione c’è il Brut Inkino di Mas dei Chini, uno Chardonnay in purezza con sentori di frutta gialla e una leggera crosta di pane. Buona freschezza e sapidità.
Poi, altre eccellenze di cui abbiamo già parlato e che si riconfermano: Letrari con il suo Dosaggio Zero dai sentori di mela matura, Balter Riserva dalle piacevoli note di nocciola e pane tostato, poi Endrizzi, Maso Martis.
Allo stand della Cavit assaggio il degorgement tardif di Altemasi, dieci anni sui lieviti. Profumi complessi, frutta gialla con qualche nota esotica, crosta di pane. Una delle migliori bottiglie in circolazione, a un prezzo (l’abbiamo già scritto) scandalosamente basso.
Mezzocorona propone due novità: la prima è il Castel Firmian Nerofino Vigneti delle Dolomiti IGT 2013, 50% Teroldego e 50% Lagrein. Frutti rossi, mirtillo soprattutto, ma anche un leggero sentore di cacao e di confettura di amarene. La seconda è il Castel Firmian Gewürztraminer Trentino Superiore DOC 2015, di stile molto altoatesino. Al naso è rosa prepotente, poi rosa canina, qualche frutto giallo tropicale. Caldo, equilibrato e persistente.
Il Redor Brut Trento della Cantina Rotaliana ha profumi di fiori bianchi, freschezza e mineralità. Il Brut Riserva 2008 presenta sentori di frutta gialla matura, qualche nota di pane tostato, nocciola, mela, pasticceria. Ancora buona freschezza e mineralità. Notevole il Teroldego Clesurae 2011 , non a caso tra i dieci migliori vini d’Italia secondo Bibenda. Prugna, lamponi, ciliegie, ma anche note derivanti dal legno (per fortuna non eccessivo) come cioccolato e leggero caffè. Equilibrato, con tannini morbidi.
La cantina Mori Colli Zugna propone il Serico Trentino DOP 2015, Chardonnay in purezza. Note di frutta gialla matura, anche esotica, un po’ di vaniglia, frutta secca non tostata. Il Morus è un’altra riconferma; crosta di pane, mela golden matura, frutta gialla: albicocca, pesca; buona freschezza. Poi, il Victoriae, straordinario orange wine di cui abbiamo già parlato in occasione della serata sui PIWI organizzata da Skywine e TrentinoWine in collaborazione con FISAR Milano.

Fuori dal Trentino, il Verdicchio dei Castelli di Jesi Misco Riserva, “Bianco dell’anno” secondo la guida del Gambero Rosso 2017. Frutta matura, fiori di acacia, di tiglio, mandorla. Buona sapidità e persistenza.
Infine, il Pecorino de I Fauri 2016. Pesca gialla, mango, qualche nota balsamica. Intenso, minerale e persistente. Grande personalità.

È tempo di chiudere ora, anche se di cose da dire e di vini da raccontare ce ne sarebbero ancora molte. Quest’anno, rifletto tornando a casa, ho visto qualche bizzarria in meno dell’anno scorso (ma forse qualcuna ci sarà anche stata e io me la sono persa). Chissà se si sta facendo strada il sano buon senso incarnato da Iginio Massari, che dice: “Alle volte si fa troppa ricerca, ma ogni tanto bisogna fare retromarcia. Perché quando si fanno piatti eccezionali che poi i clienti rimandano indietro, qualcosa abbiamo sbagliato”. E chissà che questo sano buon senso non si faccia strada anche tra i vini.