Ripartiamo quindi dalla considerazione che il Trentino vitivinicolo è oggi orientato alla concentrazione strategica su un paio di brand per i vini fermi e su un brand nella spumantistica mc. Ovviamente con le eccezioni che, sul piano dell’immagine, pesano più del crudo dato numerico delle quantità misurate.

Il sistema, così impostato pare reggere, con i bilanci dei brand in sistematica ascesa. Pare, perché di fatto manca la prova contraria essendo difficilmente confrontabili i dati di imprese così diverse. E manca alla base dei produttori soprattutto la ricaduta e il riflesso del brand business di breve e lungo periodo, ossia la crescita delle liquidazioni e l’incremento dei valori fondiari. Le liquidazioni infatti, appaiono sempre più come stipendi erogati periodicamente a produttori tenuti a libro paga, una paga magari bassa, ma sicura. Come fossero dipendenti dell’ente pubblico, cui non è chiesto di né di intraprendere, né di rischiare, ma di eseguire. Il riflesso di questa situazione genera la caduta di valore del vigneto, per cui se sono sopportabili liquidazioni annuali non esaltanti, un trend negativo sui valori fondiari induce ad analizzare e porre rimedio.

La deriva preoccupante verso la brandizzazione del territorio è cominciata già parecchi anni fa segnata da diversi episodi sempre presi sottogamba: un es. classico fu quando la Cantina di Ala, lasciata Cavit, confluì in Mezzacorona accettando in assemblea un’unica rappresentanza per le centinaia di propri soci, fino agli episodi più recenti che riguardano la conseguente sorte del direttore di Ala (azzerato per economia di scala) e soprattutto di quello di Mori-Colli Zugna del gruppo Cavit, di fatto leader del pensiero alternativo alla logica di business del Consorzio di secondo grado. Il resto sono chiacchiere da bar, buone per tenere a bada i curiosi. A Mori, infatti, si era instaurato un modello virtuoso di moderna (modernissima) politica di territorio, esempio per tutti i distretti. Per ciò stesso da colpire e sostituire con il modello funzionale al brand, ritenuto più efficace ed efficiente per il business. Il prossimo step, quindi, sarebbe l’assunzione diretta da parte di Cavit dello sviluppo territoriale nei vari distretti, razionalizzando e armonizzando in un vero delirio di onnipotenza. Con tanti saluti ai vari direttori che a quel punto non servirebbero più.

In questo ragionamento entra anche una sorta di deriva che ha connotato il comparto della spumantistica classica trentina che merita un post a parte per la sua influenza sulla viticoltura di collina e sulla destinazione di un terzo dell’uva locale che si chiama Chardonnay.

Tornando a bomba, non si tratta ora di fare la guerra ai brand (costati più sudore ai produttori che al management), ma di trovare – obbligatoriamente – un modo di convivenza virtuoso. Convivenza obbligatoria significa rinuncia da parte del management alle posizioni di comodo sopra evidenziate (per loro rischio zero), rinuncia da parte degli amministratori di affidarsi al management (fin che va, rischio zero anche per loro) e rinuncia anche per i produttori-soci a liquidazioni, magari modeste, ma sicure e senza rischio. Chi ci ha provato, come La Vis ma non solo, sa di cosa parliamo. Allora, rinunce per cosa? Per liquidazioni più adeguate ai costi e aumento del valore fondiario, come già detto, attraverso una lunga e for’anche complicata politica di rilancio del territorio.

Vedo i produttori-conferenti in cooperativa in braghe di tela, padroni del terreno su cui poggiano i piedi, ma non più padroni della destinazione di quei terreni. Pinot grigio sempre ed ovunque docet! Quindi sarà meglio che comincino a levarsi il prosciutto dagli occhi interessandosi veramente del loro destino e di ciò che lasceranno in eredità. Nessuno ha la bacchetta magica o la presunzione di sapere dove si andrà a parare, ma le evidenze e la storia dicono che il solo modello di brand-business non può funzionare. Pochi brand aziendali rappresentano, piaccia o no, una moderna forma di monopolio e i monopoli sono storicamente bollati come forme disumane di non-sviluppo. Punto. Resta la convivenza possibile, obbligatoriamente.

Possibile in Trentino con il rilancio di una post-moderna e autentica cooperazione territoriale, di distretto: cooperazione fra cooperatori, ma anche cooperazione con produttori del distretto (es. Vignaioli). Basti qui una semplice considerazione evidenziata da un leader dei Vignaioli, appunto. E’ stato verificato come tutte le più importanti zone di produzione mondiali siano caratterizzate da un certo rapporto fra superficie vitata e numero di aziende che producono ed etichettano il vino col proprio brand aziendale unito al brand territoriale, ossia la denominazione dell’origine (DOC, DOCG per l’Italia). Ebbene, Il Trentino in questa classifica sta agli ultimi posti, con una 70ina di etichette dei Vignaioli più il pugno dei più grandi brand. Mancano all’appello circa 300 aziende per giocarsela alla pari con gli altri, per cui gli enologi-direttori, invece di allontanarli (e chiudere San Michele per manifesta inutilità) andrebbero valorizzati, incaricandoli dell’attuazione dei progetti di distretto, aperti a soci e non soci cedendo i servizi relativi, tutti sotto il cappello del nostro cognome che resta Trentino per i vini fermi e Trento (punto) per i mc.

E’ evidente che il modello sopra citato collide frontalmente con la politica dei pochi brand in atto in Trentino, ma come detto, la soluzione è possibile. Basta prendere coscienza della realtà e agire di conseguenza. Non sarà una passeggiata, ma è la via obbligata e più si aspetta, peggio e più complicato sarà.