A ficcare il naso nelle notizie si corre il rischio di passare per ficcanaso e allora … mettiamoci il dito.
Fra le cronache vitivinicole di questi giorni di festa una notizia nazionale raccontava come il Trentodoc sia salito sul podio dei consumi di bollicine dopo l’irraggiungibile Prosecco e dopo il Franciacorta; fra quelle locali – archiviate le cronache delle assemblee di diverse cooperative – si spaziava dal Genoma editing finanziato alla FEM e al collegato atto di indirizzo del Consorzio Vini (scoperto da uno scoop giornalistico), fino all’export in ascesa per chiudere con la crescita delle remunerazioni dei produttori.
Quadri idilliaci senza critiche e qualche apprensione, un rito che si ripete con gli officianti di sempre che, quando sentono il bisogno di dire comunque qualcosa, enfatizzano il dato economico nudo e crudo o propongono cose di là da venire. Per carità, se alle coscienze sopite va bene così, sia. Ma uno sguardo un po’ più disincantato alle contingenze del comparto, oltre i soliti schèi che pure contano, non sarebbe male. Anzi, mi pare che le vere preoccupazioni si annidino proprio nella mancanza di visione di breve e medio periodo e quindi nell’incapacità di analisi o, peggio, nella volontà di non modificare l’esistente.
Abbiamo rimarcato spesso che la cocciuta conservazione dello status quo avvantaggi essenzialmente i pochi manovratori lasciando e tramandando alla base solo briciole indorate.
Cominciamo quindi dalla punta di diamante, il Trentodoc da podio. Sappiamo, sulla base delle libere dichiarazioni aziendali, che il leader (Ferrari)  ha venduto 5,3 milioni di bottiglie, mentre a Cesarini Sfoza (La-Vis) ci si è fermati a 900 mila pezzi, e che globalmente la cinquantina di spumantisti ne colloca 8 di milioni; come dire, e l’osservazione è obiettivamente inquietante, che tutti gli altri assieme (compresi i giganti Cavit e Mezzacorona) fanno 1.800.000 bottiglie, compresi quelli venduti nella GDO che viaggiano mediamente ben al di sotto dei 10€/bott. Basterebbe questo per interrogarsi, indagarne i motivi e porre in atto un strategia che scalzi Franciacorta da un posto che compete al Trento per qualità reale e quantità potenziale. Nel metodo classico in Italia non ci può superare nessuno a meno che non ci si accontenti del terzo gradino sulla scala. Sui vini fermi, le cronache tacciono sui bianchi e riferiscono del Marzemino in ascesa, del + 18% per il Teroldego e del + 28% per il Merlot. Dati non spiegati che possono sconcertare, ma non compete al cronista fare le chiose, riservandosi semmai il commento con i portavoce di comparto. Deve esserci un problema dalle parti delle rappresentanze perché l’analisi di un dato non può prescindere dal contesto che lo ha generato e se il contesto deve restare immobile, anche il dato resta fermo lì. Come dire accontentatevi della minestra che è comunque migliore di quella passata.

Forse non disponendo di un chiaro programma di breve e medio periodo, il Consorzio Vini ha acceso i riflettori sui prossimi lustri, indicando a FEM ciò che San Michele sta già facendo di suo col Genoma editing. Non è chiaro solo se l’ulteriore finanziamento PAT di 500.000€ sia nato su sollecitazione del Consorzio o se FEM aveva già in corso la richiesta. Le aziende sono in ogni caso disposte a un intervento a sostegno dell’iniziativa specifica, ma non ci si sbilancia sull’operazione Chardonnay Plus, né sul resto che bolle in FEM. Al di là dei proclami, la sensazione è che FEM continui ad essere un corpo estraneo alla piena funzionalità del sistema vitivinicolo trentino, da utilizzare appunto in casi di necessità o di opportunità.

Anche sui successi dell’export si dovrebbe chiosare, per separare almeno le quote relative ai vini di origine locale da quelli di origine extra provinciale imbottigliati in loco (o venduti in cisterna). Sarebbe facile convenire che senza immagine e notorietà di territorio, all’estero l’unica leva che conta resta quella del prezzo giocato sulla tipologia varietale richiesta. E i prezzi medi sono ancora bassi, troppo bassi per remunerare a dovere la fatica dei viticoltori. In definitiva, le vere criticità del settore restano sotto il tappeto perché non si vede l’ombra di un Piano di rilancio del sistema, bloccato di fatto dall’equivoco fra enologia territoriale e industriale.