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Oggi sui principali quotidiani nazionali e sulla stampa locale sono apparse le prime paginate della campagna pubblicitaria a sostegno della certificazione SQNPI – Sistema di qualità nazionale produzione integrata, più conosciuta come Ape Maia, adottata da Consorzio Vini del Trentino per nome e per conto di sei mila aziende agricole della provincia industrial – cooperativa.
Il melenso claim appiccato sopra un noioso paesaggio vitato recita così: “Vini del Trentino. Bianchi, rossi e soprattutto green”. E così scopriamo che sotto i cieli di Trento i creativi sono sempre all’opera nell’intento di arricchire il lessico dell’ampelografia internazionale: dopo aver coniato ex novo le categorie “vino testimonial” e “vino distintivo”, ora ci ammanniscono anche il “vino green”. Sì, il vino verde, verde come il portafogli dei contadini, ironizzava stamattina un amico mentre, sfogliando il Corriere, si imbatteva nel paginone pubblicitario pagato da Consorzio Vini con la stampella del Marchio Trentino e quindi della PAT.
Ma non è di questo di che voglio scrivere. Torno, invece, per l’ennesima volta e (mal)volentieri, sulla questione Ape Maia, per rispondere al commento della signora Anna, che l’altro giorno, a margine di un post, ha garbatamente rimproverato il tono canzonatorio usato da Territoriocheresiste nei confronti di questa certificazione.
Per chi ancora non lo sapesse, o se lo fosse dimenticato, provo a spiegare in sintesi che cos’è l’Ape Maia applicata al sistema vino (ma vale per tutta la produzione agricola). Si tratta di un processo di controllo, dal campo alla cantina, che certifica la coerenza fra la pratiche vitivinicole e il Protocollo di difesa integrata adottato nelle singole Regioni e nelle due Province di Trento e Bolzano. Ne discende che questo marchio, creato per far fronte alle richieste sempre più pressanti della GDO internazionale di avere a disposizione prodotti agroalimentari che siano almeno evocativi di un generico contenuto “green” (per usare la parola tanto cara ai creativi di Trento), non garantisce un omogeneo standard qualitativo. I protocolli di difesa integrata, infatti, pur dentro le linee di indirizzo di una cornice nazionale sono adottati in sede regionale (o provinciale); quindi, per dirne una, quello siciliano è differente da quello piemontese. E quello pugliese è diverso da quello lombardo. Quello di Trento è assai differente da quello di Bolzano. E così via. Ma il marchio SQNPI unifica tutto e tutti, e non può essere diversamente, nella sintesi grafica dell’Ape Maia, che diventa quindi rappresentazione simbolica, e paravento, di una pluralità di pratiche colturali e trasformative spesso disomogenee.
Provo a ricapitolare, ancora una volta e spero sia l’ultima, le ragioni della mia perplessità circa questo percorso certificativo, che per il momento, comunque e per fortuna, non pare aver eccitato le fantasie dell’agricoltura italiana.

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Il Trentino in tema di lotta integrata da molti anni adotta un protocollo molto rigoroso, forse uno dei più rigorosi e garantisti, sul fronte della salute dei consumatori e dei contadini che maneggiano prodotti di sintesi, fra quelli a regime nel resto del Paese. Perché, quindi, confondersi con chi usa molecole più impattanti e si affida a pratiche meno sostenibili? Perché annacquare dentro un sistema di certificazione generalista un’esperienza particolare unanimemente considerata fra le più virtuose? La risposta è semplice e allo stesso tempo disarmante: in termini di volumi, il 90 % del vino trentino è destinato al mercato generico della GDO internazionale, alla quale questo marchio basta e avanza. E se basta e avanza, perché ci si dovrebbe fasciare la testa cercando di brevettare e comunicare un sistema di garanzia aderente alle pratiche locali, tagliato su misura del territorio? Tanto vale sacrificare le specificità, devono aver pensato in Consorzio Vini, che da due anni impiega quasi tutte le sue risorse su questo terreno, e affidarsi ad un meccanismo generalista, anche pagando il prezzo, e per il vino di qualità questo è un prezzo altissimo, di sotto rappresentare, anzi di occultare, il valore dell’esperienza territoriale. Probabilmente questa è stata vissuta come una scelta obbligata da chi si rifiuta ostinatamente di immaginare un futuro di cambiamento e quindi lavora per il consolidamento conservativo del sistema, aggiustandolo e aggiornandolo qua e là, quando di volta in volta se ne impone la necessità concreta. In questa prospettiva la scelta politica di affidare il sistema vino trentino alla mediana mediocrità della rappresentazione deterritorializzata dell’Ape Maia, risulta ineccepibile e quasi necessitata. Ma, dal mio punto di vista – e come dimostrerò fra poco non solo dal mio – questo è un errore esiziale per chi abbia in mente un modello di sviluppo ancorato al vino di qualità, che non a caso affida principalmente la sua rappresentazione alle suggestioni identitarie e territoriali, al sistema delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche. Senza tutto questo, il vino non esiste. Anzi sì, esiste ma è vino merce. E perde per strada qualunque valore, anche economico, che non sia quello legato esclusivamente alla remunerazione della filiera industriale. Diventa una merce non differente da un bullone o da una carota.

Non sono una perplessità e una critica solo mie, queste. Così la pensa anche il sistema vino italiano nel suo complesso, se è vero quello che ci racconta il report del Ministero dell’Agricoltura.  Da cui si desume che il sistema di certificazione Ape Maia non ha incendiato le emozioni delle campagne italiane e nemmeno quelle dell’industria agroalimentare: le aziende certificate in tutti i settori merceologici ammessi, infatti, ad oggi sono circa 3 mila, a cui mi par di capire si devono aggiungono le 6 mila che fanno capo al consorzio trentino, catalogato dal ministero come soggetto unico; a fronte di un milione e mezzo di imprese agricole attive nel Paese. Assente dall’elenco del Mipaaf, peraltro, la metà delle regioni italiane. Non pervenuto, come era prevedibile, l’Alto Adige. Pochissime, si contano sulle dita di una mano, le aziende vitivinicole disposte a mettere in etichetta l’orribile bollino apicolo. Assenti tutti, ma proprio tutti, i grandi distretti del vino italiano. Nessun Consorzio, a parte quello trentino, infatti ha osato annacquare le proprie peculiarità identitarie, perché il vino di qualità di queste si nutre e su queste costruisce buona parte del suo valore economico, dentro un calderone generalista, che mette insieme patate e carote, uva da tavola e kiwi, erba medica e cetrioli,  mandorle e limoni. Fave e cipolle. Insieme ad un’infinità di altri prodotti agricoli a basso tenore di contenuti e di valori territoriali e identitari.
Qualcuno domani obietterà che anche in questo il Trentino autonomo e autonomista è stato un apripista. E che questa scelta traccerà la strada maestra di un orizzonte magnifico e progressivo per l’agricoltura nazionale alle prese con i mercati globali. E che presto o tardi tutti seguiranno l’esempio del Trentino. Io, invece, sono pronto a scommettere che nessuno, nell’ambito vino, ha aderito all’Ape Maia, semplicemente perché nessuno se l’è inculata. Perché nessuno se l’incula. E nessuno se l’inculerà. A parte, bontà sua, il Trentino. Industriale e cooperativo.

Comunque, intanto, #seguirabrindisi con l’Ape Maia.