Poggio solitariamente, e come al solito, i gomiti sul bancone di un bar, perduto in pensieri di donne e di vino. E di morte. Come sempre a quell’ora pericolosa del pomeriggio, quando l’Aromera mi chiama a sé.
Si avvicina un tipo tozzo e rubicondo e sudato, dall’aria schiettamente contadina e dagli occhietti furbi; si capisce dalle mani terrose e dagli scarponi inzaccherati che è appena uscito dal campo.
Mii dice (traduco dal dialetto): “Tu sei quello che scrive di vino”.
Gli rispondo: “Massì, ogni tanto. Però non la conosco. Lei chi è?”
Lui mulina gli occhietti e si presenta: “Coltivo Mueller e Chardonnay lassù, su quella collina Porto alla Cantina Sociale XY”.
Non ho voglia di parlare oggi.
Ma con garbo, cerco di essere accondiscendente e per tagliarla corta mi affido ai luoghi comuni: “Eh, dura lavorare la vigna in collina. La collina è poco produttiva. Si pagano i costi di produzione e si sopravvive”.
Lui sorride e mi da una pacca sulle spalle: “Ma cosa dici, bisogna pompare il Mueller. Il Mueller rende bene anche in collina”. Poi strizza l’occhio e aggiunge: “L’anno scorso con gli esuberi del Mueller ho riempito le carte dello Chardonnay. E lo Chardonnay lo vogliono tutti. Da Verona a Bolzano”.
Sorrido anch’io e gli stringo la mano: “Ciao capo e buona vendemmia 2018. Anzi: buone carte”.
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