Sabato la sommellerie Ais del Trentino, riunita in assemblea all’Hotel Adige di Mattarello,  con un voto plebiscitario (70 %) ha rieletto alla presidenza  il dottissimo e preparatissimo Mariano Francesconi. Che ricopre questo ruolo già da 12 anni. E continuerà a ricoprirlo per altri quattro. Un’era geologica. O preistorica.

Un anno fa l’AEEI del Trentino, l’associazione che organizza  gli enologi e gli enotecnici, elaborò un documento – invero molto moderato – che abbozzava l’orizzonte di nuovo modello di vitivinicoltura. Sembrò, quella, l’alba di una rivoluzione felice e consapevole. Oggi, dopo dodici mesi, di quei buoni propositi non è rimasto nulla. Nemmeno un ricordo sfocato: la proposta degli enologi è stata insabbiata, nemmeno tanto occultamente e nemmeno poco dolosamente, nelle stanze in penombra di Consorzio Vini del Trentino, fra un tavolo di lavoro e l’altro, fra una Docg impossibile e una Docg inverosimile.
Nel frattempo i protagonisti di quella stagione densa di speranze, ma brevissima come un lampo nella notte, si sono, loro malgrado, defilati. C’è chi è stato travolto dallo scandalo – ancora tutto da chiarire, almeno nella sua originazione – della Mori Colli Zugna. E c’è chi, ormai sfiancato e arreso, a fine 2017 ha lasciato l’associazione matrigna. E sono nomi di primo piano: Mario Pojer e Angelo Rossi. Ma prima di loro avevano rinunciato alla tessera AEEI anche altri nomi illustri dell’enologia provinciale (*): Lorenzo Tomazzoli, Luciano Battistotti, Roberto Cesconi, Lorenzo Cesconi, Antonio Moser, Anna Pancheri, Giannantonio Pombeni, Diego Sartori, Giorgio Sartori e Luigi Spagnolli. Una diaspora che ha lasciato l’associazione in mano agli enologi di orotodossa marcatura industriale e cooperativa.

In Trentino, un viticoltore che abbia messo anche solo un piede nel circuito della cooperazione troverebbe più facile uscire dal labirinto di Cnosso, anche senza il filo di Arianna e le ali di Dedalo, che smarcarsi dalla stretta del collare a strozzo in cui si è infilato. Gli statuti e i regolamenti cooperativi, infatti, prevedono a carico dei soci l’obbligo di conferimento della totalità della materia prima (uva) aziendale e in caso di fuoriuscita dalla compagine sociale impongono clausole di preavviso che, in alcuni casi, possono arrivare fino a tre annualità vendemmiali. Alle eventuali violazioni corrispondo misure sanzionatorie (pecuniarie) tutt’altro che insignificanti. Qualcuno potrebbe dire che questo vischiosità asservente è comprensibile; e in parte lo è. Se non altro perché l’adesione alla cooperazione è un atto volontario. E lo si compie, immagino, consapevolmente.

Ma non basta. Perché questo meccanismo scoraggiante si è fatto legge e ha assunto il sapore di una vessazione istituzionale. L’articolo 75 del regolamento urbanistico provinciale (2017), infatti, impone al viticoltore che voglia costruire due stanze da abitare adiacenti alla cantina, quindi su un terreno agricolo, non solo di avere a disposizione una superficie aziendale congrua (non inferiore a 5 ettari, di cui almeno 2 ettari in proprietà) ma anche di dimostrare “di aver operato come imprenditori nel settore della vinificazione per almeno tre anni, dell’intera produzione aziendale” e  “al momento della presentazione della domanda l’impresa richiedente non deve inoltre essere socia di cantine, presso le quali abbiano luogo la lavorazione, la trasformazione, il confezionamento e la commercializzazione del vino ottenuto dalle uve prodotte presso l’azienda”.
Una norma corporativa e conservatrice che sembra essere stata dettata sillaba per sillaba, lettera per lettera, da via Segantini per blindare un sistema che non ammette vie di fuga. E nemmeno deviazioni rispetto alla retta via. La via cooperativa, naturalmente. L’altro giorno ne ho chiesto spiegazione all’assessore provinciale che l’ha firmata, Carlo Daldoss. Alla mia domanda su quale sia la ratio di questa norma, la sua risposta, letterale, è stata questa: “Semplicemente non permettere che ogni contadino possa costruire casa in un terreno agricolo”. Insomma, sarebbero i viticoltori, magari quelli di matrice cooperativa con qualche sghiribizzo di riscatto, gli sprecatori e gli sfregiatori del territorio. Secondo il Daldoss pensiero. O il Segantini pensiero. Almeno quello ante Marina Mattarei.

Un’egemonia del pensiero unico produttivo applicato all’agricoltura e cristallizzato nella prassi da stringenti apparati normativi di carattere legislativo (Pat) e statutario (Coop), che si traduce nella scarsa attitudine al pluralismo territoriale della vitivinicoltura trentina. In Italia si registra mediamente un’azienda che produce vino con proprie etichette ogni 13 ettari di vigneto. Nella Champagne ce ne è una ogni 6,5 ettari, nelle Langhe del Barolo siamo a 7, in Valle d’Aosta a 11, in Alto Adige a 22, in Fanciacorta a 26. Anche nei più prestigiosi distretti del vino veneto, si registra una significativa propensione al pluralismo imprenditoriale nel campo vinicolo: 19 ettari per produttore nella zona del Prosecco Doc, 23 in quella del Bardolino, 35 in Valpolicella, 26 nell’Asolo e 15 sui Colli Euganei. In Trentino, la profilatura vitivinicola si ribalta e si registra invece la presenza di una sola azienda produttrice di vino ogni 70 ettari di vigneto (**). Basta così? Sì, basta così.

Tutto questo, ma se non fosse un’ora già pericolosamente tarda della sera, potrei continuare all’infinito, mi fa pensare che il sistema vino trentino sia un sistema bloccato. E irriformabile. A meno di non prenderlo a picconate. O a candelotti di dinamite.


(*): spero di non aver dimenticato alcuno e di non aver citato qualcun altro a sproposito. Se così fosse me ne scuso in anticipo, disponibile ad immediata rettifica

(**): i numeri forniti, elaborati insieme a Mario Pojer e ad Angelo Rossi sulla base di ricerche personali, non sono precisi al millimetro, perché si riferiscono ad anni statistici diversi fra di loro – comunque compresi fra il 2012 e il 2016 – e hanno quindi solo un valore indicativo ed esemplificativo