Bottiglie aperte, masterclass di Sandro Sangiorgi sui vini naturali.

Chi mi conosce sa, l’ho già detto, che guardo il mondo del vino dall’orlo del bicchiere. Sono sommelier, certo, e scrivo ogni tanto di vini; ma non mi considero davvero un addetto ai lavori, vengo qui per imparare.

C’erano molti stand delle Marche a Bottiglie Aperte. Al mattino ho incontrato Marotti Campi, un produttore di vini artigianali. Gli ho chiesto se usa lieviti selezionati e lui mi ha risposto di sì, che usa lieviti selezionati neutri, quelli che lasciano intatti i profumi dell’uva.

Ma mi chiedono tutti dei lieviti, dice, e mai nessuno che mi abbia mai chiesto se le uve sono mie o sono uve comperate. La differenza tra artigianale e industriale sta in quello, non nei lieviti selezionati o meno, dice.

Torniamo a noi. “Non è ancora il tempo di dire che: o è vino naturale o non è vino”, esordisce Sangiorgi. Lo ascolto con attenzione, qualcuno direbbe in religioso silenzio. Ha l’aria di chi è stato colto da una illuminazione, del convertito; assume un fascino e un fervore ieratico che mi attirano e respingono al tempo stesso.

Parla del vino convenzionale come di un vino ottenuto da materia morta, uccisa con la chimica e fatta rivivere con la microbiologia. Intanto, io penso al produttore di stamattina che vuole preservare a tutti i costi i profumi del suo verdicchio, del territorio che finisce nelle uve; penso al mio amico Albino Martinelli che in Trentino ha un vigneto di PIWI, vitigni resistenti, dove non fa trattamenti perché non servono. Non mi pare che sia così morta questa materia.

Comunque sia, bella l’immagine di Sangiorgi, “Il produttore custodisce la vita dalla vigna alla bottiglia”. Questa vita è la vita dell’uva ma soprattutto dei lieviti indigeni, che la trasformano o la sconvolgono con il loro lavoro.

Da una parte un produttore che vuole trasferire nel vino l’uva, i minerali, il territorio nella maniera più pulita possibile; dall’altra chi vuole che i lieviti del territorio trasformino, alle volte stravolgano l’origine per conferirle il loro marchio, trasmetterne l’essenza.

Degustiamo i vini. Non so che vini fossero, ho preso appunti fotografici e la tecnologia mi ha tradito.

I profumi sono inusuali ma comunque sono profumi, non puzze.

Il primo vino, per dire, aveva un intenso sentore di curry (qualcun altro dice di curcuma). Al mattino avevo tra l’altro incontrato Kandea, che produce vini naturali nella “terra di mezzo” tra Puglia, Campania e Basilicata; anche qui profumi e non puzze, anche qui inusuali; bei bianchi equilibrati ed eleganti.

La critica secondo me più feroce a questi vini la fa Sangiorgi stesso: non potete pensare di invitare un amico a cena, dice, e proporgli questi vini senza una preparazione (e io aggiungerei, senza aver studiato con cura maniacale l’abbinamento col cibo). Che vino è, mi dico, quello che richiede uno studio perché lo si possa bere? Non degustare, ma banalmente bere?

È un approccio concettuale al vino, penso, passa più per la testa che per i sensi.

Così, mi vien da pensare a quella mostra di Mondrian che avevo visitato anni fa, al suo percorso di riduzione del visibile a linee, forme e colori essenziali. Un percorso logico che deve essere compreso per essere apprezzato.

Qualche tempo dopo, Tate Modern, un quadro di Jackson Pollock (forse “Convergence”). All’epoca, avviluppato in una ignoranza laocoontica, non lo conoscevo e per qualche motivo ero rimasto incantato, emozionato da quelle macchie: ancora oggi non so perché.

Ecco, tra i vini naturali ho trovato Mondrian; sto aspettando di trovare il mio Pollock.