L’accusa più immediata e che da più parti si muove al pensiero critico sull’attuale sistema vitivinicolo trentino è che così facendo si danneggia l’immagine del territorio. Al nostro Territoriocheresiste, si sostiene, accede anche gente che non conosce la realtà provinciale e quindi il danno è sconfinato. Ne seguono altre di accuse, dette e il più delle volte non dette. Sembra di stare fra annoiati passeggeri di un autobus che li porta a fare la spesa, che non guardano dal finestrino e non parlano al conducente. Nel negozio dietro la fermata gli scaffali sono pieni, ma si rinnovano solo quelli delle offerte speciali. Ci sono buoni vini che costano meno dell’uva che li ha prodotti. Finiranno anche ‘ste feste (che ancora debbono cominciare), penserà il più avveduto o che m’importa si vive benone, penseranno altri.

Cambiare quando le cose vanno bene può essere azzardato. Però basta confrontare questo “andar bene” con le performance di altri e considerare come gli altri non stiano a guardare, che al ragionamento conviene premettere un “sembrano” andar bene. Per andare vanno, ma che tutti i comparti costituenti il settore soffrano di un qualche acciacco è convenuto anche dai più ortodossi. Comparti produttivi non meno che Enti e Organizzazioni deputate.
La filiera parte dal territorio che produce l’uva, passa attraverso le cantine che fanno il vino per giungere al consumatore per il tramite del mercato. A vario titolo, quindi, c’entriamo tutti, geologi e climatologi, metalmeccanici dell’indotto e astemi compresi.
Tutti hanno diritto di parola, a dibattere, e qualcuno il dovere di decidere confermando ciò che funziona e innovando ove necessario. Se il diritto di parola non è esercitato e il dibattito langue, si va per la strada tracciata, magari avviluppandosi in una spirale perversa.
Parola forte, questa, che addolciremo solo con prova contraria. Il dito è puntato sulle politiche degli oligopoli e sarebbe un miracolo mondiale se non facessero quello che fanno. Ossia mettere il cappello sulla filiera, piegandola ai sacrosanti bisogni dell’industria enologica in perfetto stile neoliberista e globalizzante.
È il modello che regge il Trentino, non solo quello vitivinicolo, grazie alla capillare rete di cooperative che hanno unito gli sforzi per consolidare competitor in grado di confrontarsi ovunque.
Per essere l’uno virgola del vigneto italiano, avere due gruppi nel gotha vinicolo e un terzo nel segmento delle bollicine fa piacere, ma i dati vanno ponderati bene e alla fine spiegano anche il perché dei bassi prezzi.
Che non cambieranno di molto, nemmeno dopo le feste. Il perché è già stato scritto.
Cosa ti lasciano i due gruppi planetari Constellation Brands e Gallo che fatturano oltre 2 miliardi di $ o alla Moldavia Mileştii Mici, la più grande Cantina del mondo con 200 km di gallerie?

Per il nostro viticoltore, la questione allora è se – compressi ulteriormente i costi di produzione – esiste un modo per aumentare la redditività dell’uva e l’incremento dei valori fondiari (andati scemando nel ventennio scorso)?
La risposta è sì, ma bisogna darsi da fare. Brutalmente, credo che la maggior parte dei 7.500 viticoltori trentini stiano già pensando alle potature invernali più che al saldo della Cantina: concreti e rassegnati. Una piccola minoranza di Vignaioli invece, sta promuovendo e promuovendosi a consumatori che al vino di montagna chiedono altro, disposti a pagare il giusto in cambio dell’emozione che trasmettono.

Servono tante rondini per fare primavera, almeno qualche centinaio.
Non è una novità che in Trentino manchino almeno 350 nuove imprese imbottigliatrici per testimoniare immagine e notorietà di un territorio di cotanta superficie: una regola che vale anche per quelli globalizzati. Invece di limitare gli imbottigliamenti delle Cantine di primo grado, bisognerebbe favorire nuove filiere rendendo protagonisti i soci più disponibili, interagendo sul distretto di riferimento con i Vignaioli. Tutti indistintamente sotto il cappello di una comune origine geografica. Per qualificarla.
Un bel sogno! si dirà. Vero niente: ad esempio. sulla collina di Trento – quella raccontata dal Mariani, storiografo del Concilio, ci sono decine di residenze ben tenute da proprietari di ampi vigneti che conferiscono alle cooperative e che potrebbero essere stimolati a fare il passo che manca. Idem negli altri centri e borghi. Basterebbe la consapevolezza. Anche la cooperativa del luogo avrebbe innegabili vantaggi.

Un paradigma nuovo, un rinascimento per l’Assessorato all’agricoltura e Federcoop, per FEM e CCIAA, per un Consorzio Vini finalmente interprofessionale e paritetico fra industria e produttori singoli e associati.
Riuscirà Cavit a separare le sue attività industriali lasciando a un rinnovato Consorzio delle Cantine Sociali (la madre che la generò nel ’57) la parte di competenza del territorio, d’intesa con i Vignaioli nei rispettivi distretti? E lasciando a costoro il canale Ho.re.ca. e tenendosi la GDO?
Fra un po’ potrebbe essere tardi perché già oggi Uomini consapevoli e in grado di osare impegnandosi in un rinascimento possibile, si sono rarefatti. Sosteniamoli invece di criticarli, obbligandoli a bassi profili. Nessuno ha la sfera di cristallo, ma la sfida merita di essere colta.