Rainer è il padre dei miei figli è stato mio marito, l’uomo di cui mi innamorai perdutamente a 22 anni, il filosofo agrario (così amava definirsi) che mi insegnò a vedere la natura con uno sguardo diverso e ad imparare ad ascoltarla. Mi prese per mano e vidi il mondo con altri occhi. Solo negli ultimi anni del mio percorso di donna, contadina e viticoltrice, ho preso coscienza di quello che cercò di trasmettermi. Non era facile stargli accanto, i suoi umori altalenanti rendevano spesso impossibile il dialogo. Ma dietro a tutto questo c’era un uomo di una bontà infinita che amava la vita, che si batteva per la conservazione del creato, per gli ideali di una cultura agraria con al centro l’uomo, per la libertà dei contadini, per la dignità del lavoro nei campi.

È con queste parole che Elisabetta Foradori, ricorda la figura di Rainer Zierock, parole che leggo sulla pubblicazione che accompagna il seminario previsto per domani a Merano nell’ambito dell’anteprima di MWF (The Circle, piazza della Rena, ore 9) e intitolato Nel segno di Zierock; evento prodotto da Naturae et Purae, la creatura del bravo giornalista enogastronomico Angelo Carrillo.

Per la prima volta, a dieci anni dalla morte, dunque un primo momento di riflessione sulla figura di uno dei personaggi più discussi, contraddittori, geniali, polemici, anticonformisti, lungimiranti, che hanno abitato il mondo del vino internazionale e trentino: Rainer Zierock.

L’ultimo ghoethiano, qualcuno lo ha definito. Rainer arrivò in Italia dalla Germania, dove si era laureato a Hohenheim  e dopo aver studiato a Montpellier.

In Italia, innamorato del mito del mediterraneo, arrivò a metà degli anni Settanta del secolo scorso, dopo essere stato, nel suo Paese, uno dei leader del movimento spartachista del ‘68, vissuto come attualizzazione concreta e moderna delle esperienze cinquecentesche delle guerre rustiche.

In Italia, intessé rapporti, relazioni e collaborazioni con aziende, consorzi, istituti di ricerca agraria; per molti anni fece coppia fissa con il professor Attilio Scienza. Fu grazie a Rainer e alla sua intensa e vulcanica attività di conferenziere e sperimentatore che in Italia arrivarono le barriques e tanto altro.

Poi approdò in Trentino, all’Istituto agrario di San Michele. E anche qui lasciò il segno e non solo come maestro per qualche generazione di studenti. In Trentino per un attimo trovò pace: divenne il marito di una giovanissima Elisabetta Foradori e padre dei suoi tre figli. Il Granato  Foradori, quello che oggi è uno dei vini iconici a livello internazionale, porta la sua firma. Ma in Trentino e in Alto Adige continuò a sperimentare la sua visione olistica e steineriana del vino: pioniere e iniziatore della biodinamica applicata all’enologia e antesignano dei vini naturali. I segni che ha lasciato dalle nostre parti sono tanti e indelebili, il cenacolo e il manifesto di Dolomihtos, vini indimenticabili e al limite del concetto di vino, come Phineas (insieme a Reiterer), Zeus (con Oxenreiter), l’etichetta balenosa del metodo classico Cesconi, il Blauwal.

Ma queste sono solo brevi note biografiche. Rainer fu un intellettuale del vino e della vita a tutto tondo: un filosofo agrario, come amava definirsi, profondamente ispirato dalla civiltà greca e mediterranea; immaginava il vino come porta per accedere al regno degli dei. Un vino che doveva essere capace di sfidare il tempo e l’immortalità. Del resto Rainer era ispirato immanentemente dal mito di Dioniso e di Demetra.

Resta un po’ di amaro in bocca, almeno a me, osservando che in Alto Adige la figura monumentale di quest’uomo oggi è al centro di un evento internazionale come MWF, mentre in Trentino, in questo Trentino curiale e ancora figlio della bieca e ipocrita cultura del concilio di Trento, su Rainer è calata una sorda e opaca cortina di silenzio. Ma tant’è.

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