Credo di essere nato al vino con la Schiava. Quella di mio nonno, quella bottiglia, ma forse a sera erano due, che lui, ormai vecchio, portava con sé durante tutta la giornata.
Avevo cinque anni, o giù di lì, quando se ne andò; ma di lui, insieme a poche altre, conservo questa immagine, la più vivida: la bottiglia di Schiava sulla vecchia tavola della cucina quando era da solo; e la bottiglia di Schiava nascosta dietro le gambe della tavola quando in casa arrivava qualcuno, perché a quel qualcuno, per lo più, offriva un vino comune. Non il suo, non la Schiava. Che invece riservava esclusivamente agli amici più intimi e a me; sì anche a me bambino, tirato su a polenta e vino: qualche volta mescolato con l’acqua, qualche volta con lo zucchero. E qualche volta anche da solo, di nascosto da mia madre.
Poi nonno morì. E con lui, in Trentino, morì anche la Schiava: nel 1980 rappresentava ancora il 34 % delle uve vendemmiate, oggi arriva sì e no al 3 %. Anche da adulto, quando l’approccio al vino cominciò ad essere più consapevole, il ricordo di quella Schiava, che ormai non c’era più né in cantina né sulla tavola, ha continuato a guidarmi; quasi ad ossessionarmi. Per anni ho cercato quei profumi, quei colori, quei ricordi di bambino; beh, oddio nel tempo qualcosa che ci assomigliava  lo ho annusato; per esempio nel Kalterersee Auslese. Ma non era ancora, non era più, la Schiava di nonno Leo, Leo l’americano come tutti lo chiamavano in paese perché, alla Amerigo di Guccini, da adolescente e da giovanotto aveva trascorso una ventina d’anni nelle miniere di carbone degli Stati Uniti.
Poi, qualche tempo fa, l’epifania, la rivelazione, che per un attimo un bicchiere casuale mi ha fatto ritrovare e rivivere il nonno e il suo vino quotidiano. È accaduto davanti alla Schiava (Trentino Doc 2016) di Produttori Toblino, a mio modo di vedere la più bella cantina sociale della provincia, un vero e proprio “Vignaiolo Collettivo”, oggi guidato con sensibilità autenticamente territoriale e allo stesso tempo con piglio moderno da Carlo Debiasi.

Quel colore chiaretto intenso che vira quasi sul rubino, quel naso di ciliegie appena messe nel cesto e di violette appena raccolte al limitare del bosco e quel sapore secco e acido insieme che regalano una sensazione di incredibile freschezza come una coppa di macedonia di frutti di bosco  divorata d’estate e quel finale che si esprime con una tonalità leggermente amaricante: una nostalgica epifania. Il film della mia infanzia che d’improvviso mi si è srotolato davanti agli occhi, quando ormai avevo perduta la speranza di rivederlo. Mi sono riconosciuto subito in questo vino che mi ha educato al vino come un imprinting ancestrale: la Schiava di nonno Leo come le oche di Lorenz.
Questa bottiglia, poi ho scoperto, è una delle ultime novità della Cantina di Toblino. Novità si fa per dire, perché in realtà assomiglia ad un felice ritorno al passato e alle tradizioni. Un mix di uve di varietà Schiava Gentile e, in piccola misura, di Schiava Grossa, conosciuta come meranese, vinificate alla vecchia maniera contadina: la macerazione sulle bucce per qualche giorno nei tini conici e poi il riposo nel legno grande. Quasi una sperimentazione o una provocazione; forse all’inizio solo un geniale capriccio del winemaker della cantina, Lorenzo Tomazzoli. Coinciso con l’opportunità offerta dalla contemporanea revisione del disciplinare della Doc Trentino, che per la prima volta, e fuori tempo massimo, ha concesso a questa varietà, ormai sparita dal vigneto locale, il riconoscimento dell’origine controllata. Un tentativo almeno nella prima annata andato così bene, che ora la bottiglia è inserita nella gamma delle referenze topiche della cantina di Toblino. Una bottiglia che in Trentino, finalmente, prova a mettere la parola fine a 30 anni di volgari e spesso indecenti banalizzazioni della Schiava.