Senza titolo-1L’altra sera, mentre stavo entrando in un ristorante scelto a caso (perché anche questo è un criterio) fra quelli di una nota e finanziata località turistica del Trentino, mi sono bloccato sulla porta. Attonito. Accanto al menù del giorno, compariva anche una circolare della Provincia Autonoma di Trento: “Il Medico Provinciale dispone…”. E sapete cosa dispone il medico provinciale in questo beato Trentino della ristorazione? Istruisce minuziosamente gli esercenti su come attrezzare i cessi. Si, i cessi. Dispone, il Medico Provinciale, che i servizi igienici debbano essere corredati alternativamente o cumulativamente di “asciugamano a rotolo o stoffa con avanzamento automatico; serie di piccoli asciugamani posti su una mensola e completi di apparecchiatura per il loro contenimento; salviettine o rotolo di carta con cestino di contenimento; asciugamano elettrico ad aria calda”. Naturalmente seguono adeguate sanzioni, in caso di violazione.

Ho pensato, l’altro giorno, leggendo questa prosa surreale, che siamo riusciti nell’improbabile impresa di burocratizzarci anche il culo. E non so se questa sia una cosa buona e giusta.

Non conosco la ragione, ma forse forse è obbligatorio, per la quale l’esercente si è sentito in dovere di esporre questa circolare. Forse per provocazione o forse perché convinto, così facendo, di far colpo sul culo dei suoi clienti. Non so. Non ho chiesto. Ma mi chiedo, invece, siamo sicuri che occuparsi minuziosamente di salviette e asciugamani, nel caso di un ristorante, sia una cosa intelligente. Al ristorante ci andiamo per pulirci il culo (e le mani) o per mangiare? Ci andiamo per fare gli esami di igiene pubblica, o per bere un TRENTODOC da accompagnare ad un piatto di pasta fresca? Non so, sono disorientato. Mi sembra di vivere nel paese degli uomini a testa in giù. Quando ai ristoratori si chiede, anzi si impone, di occuparsi prima di tutto di carta igienica anziché di alimenti, temo si sia vicini alla mcdonaldizzazione del gusto. E anche a qualcosa di peggio. Il totem della sicurezza alimentare e dell’igienismo uccidono la cultura del cibo: non importa ad alcuno se nel piatto arriva un trancio di spada pescato nell’oceano indiano dieci anni fa, importa solo che il cesso sia pulito e che gli asciugamani siano quelli giusti. Evvai Trentino, che sei sulla strada del futuro.

Poi, comunque, l’altro giorno in quel ristorante ci sono entrato. Ho chiesto un TRENTO, mi è arrivato al tavolo un Casteller. A quel punto ho rilanciato e ho chiesto un Granato, mi si è risposto che non è ancora tempo di granite. Ho chiesto un dolce tipico e, fra una meringata e una panna cotta, mi è stato proposto un “Kinder Pinguì” (vedi foto in alto). La pasta era una pasta industriale passata di cottura. La cotoletta era accettabile ma abbinata ad un blob di patate che avrebbero dovuto essere “saltate” e invece erano un’infome e incomprensibile purea. Basta così, credo. Ah, no: il cesso era inappuntabile. Pulitissimo e profumatissimo. E l’elettroasciugamano-astronave sparava aria calda a motore.

Ripeto, resto disorientato. E mi chiedo: che razza di paradiso (o inferno) marziano è diventato questo Trentino, dove sono i Medici Provinciali ad occuparsi di ristorazione. Dove la sicurezza alimentare è diventato un feticcio che calpesta quotidianamente la qualità degli alimenti e le competenze di cucina e di sala. A questo punto mi verrebbe da dire: meno Medici (provinciali) e più TRENTODOC, please. Ma so che è tempo sprecato: ci aspetta un futuro di salviette colorate per tutti. E di TRENTODOC per nessuno. Purtroppo.

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