29-autunno,Taccuino_Sanitatis,_Casanatense_4182.

Confesso che mi sono rotto di questa campagna pessimistica e iettatoria contro la vendemmia 2014 nelle regioni del nord. Dove ti giri e dove ti rigiri, tutti, quasi tutti, sono pronti a sputare sentenze capitali sull’uva di quest’anno. Mi chiedo cosa siano abituati a bere, tutti i giorni, gli scrittori di vino che imperversano in rete e da settimane preconizzano il disastro universale? Ma di cosa vivono tutto l’anno? Solo di Biondi e Santi e Romanee-Conti? Solo di Barolo del 1964?

Eh sì, perché a sentir loro quest’anno l’uva bisognerebbe tagliarla a terra e lasciar perdere la vendemmia. Perché, secondo questa novella razza di disfattisti della vigna, il vino o è grande o non è.

A parte che l’uva e il vino sono due cose diverse, ma il vino è vino anche quando appartiene ad un’annata normale o è figlio di una stagione sfigatella come questa. E forse è proprio in stagioni come queste che bisognerebbe rimboccarsi le maniche e provare a raccontare le storie contadine. E anche quelle industriali. Non quelle delle barricaie di plastica ad usum dei grulli della domenica che si eccitano davanti ad una botte e nelle vinoteche tutte lustrini e paillette con i quadri del nonno (che magari non è neppure il nonno) appesi alle pareti per fare scena; ma quelle degli uomini e delle donne che, tempo o non tempo, pioggia o peronospera, comunque ci provano.

Devo dire che mi ha fatto un certo effetto leggere che uno degli uomini di punta del vino nazionale suggerisce la via coraggiosa della rinunzia all’Amarone 2014. Che è come dire: cari contadini siccome quest’anno le vostre uve non valgono un cazzo, lasciatele pure dove sono. E se ve le compro, a qualsiasi prezzo, lo faccio solo per farvi un favore. Quindi zitti e mosca. Mi vengono in mente le storie contadine di inizio Novecento, e anche più in là; la povera gente costretta ad elemosinare due soldi ai piedi del commerciante di turno con le bele braghe bianche.

E posso anche capire che i padroni, che sono sempre uguali, tornino a fare certi discorsi. Soprattutto in tempi di ideologia marchionista imperante e imperversante. Capisco meno, anzi non li capisco del tutto, invece gli intellettuali, veri e falsi, del vino che scodinzolano loro dietro. Fingendo di non capire che a rimetterci, in questi casi, non sono imbottigliatori, consorzioni, commercianti e industriali, ma sono solo i contadini, i coltivatori della vigna, che quest’anno forniranno materia prima a basso prezzo, che il prossimo anno finirà in bottiglia allo stesso prezzo di quest’anno e dell’altro anno. Raddoppiando i margini di guadagno di chi il vino lo produce e soprattutto lo vende.

Comunque, restando in attesa trepidante dell’annuncio ufficiale che quest’anno, poveri noi, l’orbe terraqueo dovrà fare a meno dell’Amarone, provo a buttare giù qualche impressione sulle campagne e sulle uve che ho visto in queste settimane. Premetto che non sono un tecnico e che sono solo un modestissimo assaggiatore di uve e di vino. E nemmeno tanto bravo: il fumo di sicuro mi ha rovinato la bocca e il naso. Tanto che, talvolta, mi capita perfino di bere con piacere un bicchiere di Casteller Cavit. Ma tant’è.

Dunque, da un paio di settimane, giro in lungo e in largo per le campagne di fondovalle e di collina, da Roverè della Luna all’Alto Veronese. Ho chiacchierato con contadini, con vignaioli, con presidenti e direttori di cantina. Ho ascoltato le loro preoccupazioni. E li ho visti impegnati, fino allo stremo, per salvare quello che si poteva, si può, e si potrà salvare. Mi sono sembrati tutti, anche i dirigenti dei grandi colossi cooperativi, responsabilmente preoccupati e allo stesso tempo decisi a non lasciar soli, a marcire e a pagare il dazio di questa stagione così difficile, i loro contadini.

Ho visto uve, ragionevolmente imbarazzanti. Ho visto vendemmiare roba deteriorata dal marciume e dalla malattia. Ho visto vendemmiare roba verde che più verde non si può: del resto questo era l’unico modo per contenere il danno e andare incontro a chi ha lavorato e ha investito per un intero anno fra le vigne. Ho visto portare in cantina roba da dieci gradi (Babo). Ho visto queste cose soprattutto sul fondo della Valdadige. Ma non ho visto solo questo. Ho visto anche vigneti in ottima forma; e li ho visti anche in fondovalle; ho messo in bocca acini di Chardonnay da cui si possono prevedere ottime basi spumante. Ho visto vigneti, sia convenzionali che biologici – magari trattati fino a 20 volte a zolfo e rame -, perfetti. Ho assaggiato qualche grappolo di Sauvignon Blanc che promette più che bene. Ho capito che forse per le uve rosse, ci sarà qualche problema in più. Che se il sole continuerà a farsi desiderare in questo modo, sarà difficile vederle maturare. Ma qualcosa ci si inventerà. O no?

Viticoltura a macchia di leopardo? Massì, diciamo così. Anche se i soliti soloni asseriscono che l’espressione è truffaldina. Sarà come dicono loro: ma a me non pare che tutta l’uva di quest’anno sia da distilleria. Ho perfino visto carri carichi di Pinot Grigio in straordinaria forma e in ottimo equilibrio all’assaggio in bocca. E allora? Allora va bene così, l’annata, certo, non sarà memorabile. E allora? Allora, appunto, va bene così. E in bocca al lupo, cari contadini. E non lasciatevi condizionare, e nemmeno ricattare, da quelli che vi dicono che la vostra uva, quest’anno, non vale un cazzo. Le grandi annate lasciamole bere a loro, io, con voi, mi accontento dell’aurea mediocritas di un’annata sfigatella come questa. Con buon a pace dei menagrami allevati in batteria a Krug e Petrus.