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Di Massarello – La notizia della conferma in blocco della dirigenza dell’Istituto del Trento DOC è passata quasi in sordina sulla stampa. Lo stringato comunicato diceva poco, ma abbastanza per interrogarsi e capire dove vuole andare la spumantistica locale. Cominciamo dalle conferme. Squadra vincente non si cambia: basta convenire sul peso delle vittorie. E il peso c’è, al punto da schiacciare ogni altro ragionamento. Intendiamoci. Non è che all’Istituto si debba imputare il peso (oltre 300 mila quintali) dello Chardonnay annualmente prodotto in Trentino e che rappresenta il “peso” maggiore che grava sull’intero sistema vitivinicolo locale. Infatti, è solo un terzo quello destinato a base-spumante, ma è altrettanto vero che l’Istituto non può chiamarsi fuori dal ragionamento. Anzi, essendo parte importante, dovrebbe farsene carico e stimolare chi di dovere affinché si dia una qualche risposta rassicurante a quei signori che in questi giorni stanno sulle colline a potare nel freddo. Da notare che parecchi dei signori che invece siedono nel calduccio dell’Istituto, sono contemporaneamente anche responsabili di quella massa di eccellente Chardonnay-palla al piede di cui sopra. Un argomento che evidentemente non sfiora nemmeno i loro pensieri, tant’è che la materia riguarda in primis il Consorzio Vini. A posto siamo! Lì qualcuno accarezza l’ipotesi di trasformare l’eccedenza, tale è considerata, direttamente in Pinot grigio così da levarsi il problema. Torniamo alle conferme. Il presidente uscente aveva posto il suo prestigio personale e quello dell’azienda che dirige a garanzia della continuità dopo i lunghi anni a guida Ferrari. Con la continuità aveva promesso lo sviluppo, ma i sette milioni di pezzi/anno non testimoniano di un incremento, se non nel valore delle bottiglie (qualcuno escluso). Quelli dell’uva e dei terreni sono sicuramente regrediti. Colpa della recessione, si dirà. Colpa della mancanza di progettualità, si potrebbe contro-obiettare. (Prosecco docet). Anche il resto del consiglio è formato da degnissime persone tutte confermate, ma anch’esse sembrano appiattite su schemi che non appaiono risolutivi di nessuno dei nodi che caratterizzano il comparto. Evidentemente non è facile stare attorno ad un tavolo dove il confronto è fra chi produce poche migliaia di bottiglie e chi le bottiglie le conta a milioni. In questi casi, la prima cosa che viene in mente è auto-referenziarsi, un esercizio mutuato dalla politica che alla fine ci costerà pure l’autonomia; la seconda è quella di seguire i grandi sulle strade nazionali e non solo: nel mirino, infatti, il comunicato vede nientemeno che gli Stati Uniti. Per carità, una gita negli States non si nega a nessuno, ma sono consapevoli che verrà chiesto loro del Prosecco? O pensano che dopo la crisi-dove-nulla-sarà-piu-come-prima, gli americani non aspettino altro che lo spumante di montagna? Ma dai!

Allora e per concludere, se è pur vero che la qualità del “Trento” non è in discussione, non sarà certo con il sottaciuto monitoraggio dei quantitativi in tirage (dato che quelli di vendita sono farlocchi) che si rianimerà l’istituzione. In tutto questo ci pare manchino perlomeno l’emozione che il mondo delle bollicine dovrebbe trasmettere, il fascino che dovrebbe accompagnare raffinate attività e anche, se ci è consentito, la seduzione che da sola dovrebbe selezionare, fra tutti, i pretendenti/consumatori migliori. Altrimenti che Trento è?