Vertebrali - Paola Attanasio
Vertebrali – Paola Attanasio

Premesso che non sono né un agronomo né uno stregone del marketing. E premesso, soprattutto, che ciascuno è libero di fare, e in questo caso di coltivare, la beata minchia che gli pare. Premesso tutto questo, e tralasciate altre premesse che vi potete immaginare, dedico quattro righe alla notizia apparsa ieri con grande risalto su un quotidiano locale. La notizia è pressapoco questa: la Vallagarina scopre la sua vera vocazione nascosta, il peperoncino. Sì, avete capito bene, proprio il peperoncino.

La notizia nasce dalla cronaca: un paio di estrosi amici, da un paio d’anni, hanno deciso di dedicarsi a questa coltivazione. E la stanno promuovendo: lo scorso anno li ho incontrati al Salone del Gusto di Torino, quest’anno li ho visti immortalati davanti al logo di EXPO. Tutto bene. Per l’amor di Dio. Beati loro e beato Trentino che fa rima con peperoncino. Negli anni Ottanta il Trentino faceva rima con vino. E fu una campagna così fortunata, che qualcuno se la ricorda ancora. Si vede che i tempi sono cambiati e che il vino è passato di moda anche per le rime baciate.

Ma la questione non è il buonissimo peperoncino di Isera coltivato con passione, e pare con successo, dai due simpatici amici nelle campagne lagarine fino a ieri incolte. Il tema è un altro. Mi chiedo, infatti, è realisticamente possibile che il Trentino sia una terra vocata a qualsiasi cosa? Alla coltivazione delle uve per il TRENTO DOC di montagna e di pianura, del foraggio per il Trentingrana, del frumento per la pasta dolomitica, dello Zafferano del monte Baldo, delle erbe officinali di montagna, delle patate della Valle di Gresta, degli asparagi di Zambana, del mais per la polenta di Storo e per quella della Valsugana, delle mele della Valle di Non e della valle dell’Adige, delle fragoline di bosco di Sant’Orsola, delle prugne di Ceniga, del corniolo per le famose confetture, del sambuco per l’Hugo, delle olive per l’olio del Garda? E poi si potrebbe continuare, magari con l’introvabile broccolo di Torbole e le insuperabili castagne di Castione. E via di seguito, fino ad arrivare alle zucche mellariniane di Halloween e al peperoncino di Isera.

E’ possibile, mi chiedo, che un territorio così relativamente piccolo, come il Trentino, sia uno scrigno di tali e tante e fortunate biodiversità, che non appena seminate sono già destinate ad entrare irrimediabilmente nella sfera cult dell’eccellenza agro-alimentare internazionale? Sarà. Non ho motivo di dubitarne. Ma mi piacerebbe che un ente indipendente e autorevole, come la FEM per esempio, un giorno certificasse, studi di zonazione alla mano – che non sono propriamente una cazzata -, che il clima e il terreno e le competenze, insomma il terroir trentino, della nostra provincia sono davvero così versatili da essere naturalmente adatti ad ogni tipo di coltivazione. Se questa vocazione generalista c’è davvero o se ce la siamo inventata noi per tenere in piedi una baracca scombussolata e per consolidare il consenso politico ed elettorale di qualche assessore, non necessariamente provinciale, all’Agricoltura e al Turismo.

Ancora una volta il rischio è quello di un disastroso canto autoreferenziale. Senza contare che questo minestrone indifferenziato, che coltiva a man bassa vocazioni generaliste, temo giovi poco all’immagine del Trentino. Anzi contribuisca a confonderla e ad appannarla: un Trentino di tutto un po’, una macedonia per tutte le stagioni, che però fa fatica a costruirsi una reputazione solida oltre il confine di Salorno e quello di Borghetto all’Adige. Piazzetta Trentino EXPO, docet.