Ciò che si rileva dal bilancio Cavit, approvato oggi dall’Assemblea dei soci, è una serie di notizie positive che vanno più in là del fatturato in crecita e dell’aumento del margine operativo.
Un consorzio di secondo grado come la Cavit non punta tanti all’Utile dl’esercizio – tanto meglio se viene – quanto sulla remunerazione dei soci.
I soci sono le cantine sociali, alle quali conferiscono l’uva i contadini associati. Sono dunque questi ultimi i veri soggetti che devono trarre un vantaggio.
E questo bilancio conferma l’aumento del trend della redditività per gli agricoltori produttori di uva, cresciuto più del fatturato e più dell’Utile d’esercizio.
Inoltre, lo staff di tecnici della Cavit è fortemente attivato a migliorare non solo il proprio vino ma anche quello delle cantine sociali, che evidentemente vendono anche loro.
Infine, al di là dei vini rossi che meritano una maggiore attenzione nell’invecchiamento, i prodotti raramente superano i due anni di stoccaggio.
Come vedremo dal servizio che segue, altri tre fattori vanno messi in evidenza.
Il primo è che Cavit non è indebitata, condizione che le ha permesso di superare la Grande crisi senza sofferenze.
Il secondo è che esporta per l’80% della propria produzione. E anche questo è un aspetto molto positivo, sia perché non fa concorrenza alle cantine associate, sia perché diversificare i mercati è una garanzia di solidità.
Il terzo è che il brand Cavit è collocato ai livelli alti delle aziende vinicole italiane. La sinergia di immagine, dunque, fra Trentino e vino del Trentino può funzionare.

Questo è  il testo dell’editoriale, senza firma, pubblicato sulla rivista on line L’Adigetto a margine, anzi come incipit, del comunicato stampa diffuso al termine dell’assemblea Cavit di lunedì. Lo stesso comunicato pubblicato, per carità di patria senza commenti e senza pistolotti di contorno, anche da Trentino Wine

Leggendo il testo zuccheroso e cercando di interpretare il tono fastidiosamente compiacente di queste parole, viene da chiedersi se l’oscuro estensore del peana cavitiano, di cui nessuno credo sentisse l’intimo bisogno, ci sia o ci faccia. Ma forse, più semplicemente, il melenso venditore di miele in questione nemmeno questa volta è riuscito a guadagnare la giusta distanza dalle cose che cerca invano di commentare. E la giusta lontananza. Quella necessaria per avere uno sguardo lucido e di insieme.
Dopo aver illustrato l’ammuffita lezioncina cooperativa secondo la quale l’utile di esercizio, il fatturato e il margine operativo, per un consorzione paternalista come Cavit, sarebbero questioncelle di second’ordine rispetto al sacro principio della remunerazione dei soci, l’acuto editoriale spiega a noi inutili idioti che “questo bilancio conferma l’aumento del trend della redditività per gli agricoltori produttori di uva, cresciuto più del fatturato e più dell’Utile d’esercizio“. Bene, forse a questo punto qualcuno dovrebbe spiegare all’esimio analista che in Trentino la remunerazione dei soci  viticoltori ha subìto, in 15 anni, una batosta epocale, provocata dal dimezzamento dei prezzi all’origine di Sua Santità Pinot Grigio Industriale. E che la stessa fine hanno fatto i valori immobiliari del vigneto trentino. Mentre i costi di produzione all’origine aumentavano vertiginosamente. Oppure spiegargli, magari anche con i disegnini, che  le remunerazioni ad ettaro dei cooperatori trentini si aggirano mediamente attorno ai 10  – 12 mila euro, mentre quelle dei loro colleghi alto atesini, che hanno scelto un modello di sviluppo sinceramente e coerentemente territorialista, superano abbondantemente i 20 mila euro/ettaro. Per esempio.
Sono cose piuttosto note. E stupisce, e sconcerta, che il felice commentatore queste cose non le conosca. O le sorvoli con l’agilissima disinvoltura di chi guarda altrove. Forse verso le nebulose spaziali.
Si spinge verso gli orizzonti del grottesco, il nostro opinionista, quando sentenzia: “Inoltre, lo staff di tecnici della Cavit è fortemente attivato a migliorare non solo il proprio vino ma anche quello delle cantine sociali, che evidentemente vendono anche loro”.
Da quanti anni lo staff tecnico di Cavit non produce qualcosa di innovativo e migliorativo? Dai tempi di Nereo Cavazzani, probabilmente. Perché, oggi, al contrario, se qualcosa di nuovo, di innovativo, di migliorativo si intravede nel Trentino enocooperativo, questo arriva dal primo grado e dalle periferie: PIWI, anfore, orange wine, autoctoni reinterpretati. Ma questa spinta verso il futuro la si deve esclusivamente al coraggio e alla creatività dei direttori e degli enologi delle cantine sociali di territorio, non ai burocrati da laboratorio della cattedrale industrialista di Ravina. Che, anzi, da tempo insieme ad un management senz’anima, manifestano la loro inadeguatezza culturale rispetto al futuro. E anche all’attualità.
Prima della chiusura, dove si raggiungerà l’apoteosi della mala opinione e lo vedremo alla fine, il solerte estensore del mirabile editoriale giura che Cavit “esporta per l’80% della propria produzione. E anche questo è un aspetto molto positivo, sia perché non fa concorrenza alle cantine associate, sia perché diversificare i mercati è una garanzia di solidità”.
Ora, a parte che considerare come positivo un simile sbilanciamento verso l’estero, equivale ad autodenunciare una totale estraneità alla cultura del territorialismo, a parte questo, nelle stesse ore in cui queste amenità venivano scritte, e purtroppo pubblicate, erano semplicemente i fatti ad incaricarsi di smentirle.  Clamorosamente.
selezione_412A proposito dell’affermazione secondo cui Cavit non farebbe concorrenza ai suoi soci del primo grado: giusto in questi giorni sta uscendo dai magazzini di stoccaggio di Ravina una corposa partita di Trento Altemasi Millesimato in formato Magnum, ambiziosamente denominato “Edizione Limitata Degorgement Tardif” smerciato nei discount di periferia del beverage trentino al modico prezzo finale di 42 euro. Si tratta di un prodotto, lo dico per averlo assaggiato, di qualità rara che si posiziona su un livello di fascia alta, quello che mediamente le grandi maison del metodo classico,  anche di casa nostra, occupano con prodotti venduti al pubblico a non meno di 150 euro. A parte tutti i ragionamenti che si potrebbero fare sulla ferita sanguinolenta inferta al brand territoriale, come la chiamiamo questa operazione commerciale? E’ o non è un’azione di concorrenza spietata e cruenta nei confronti delle decine dei piccoli produttori della denominazione TRENTO, fra cui ci sono anche numerosi soci dell’oligopolista di Ravina? Cosa è questa roba qui? Come la chiamiamo? E’ per caso un’opera di bene?
Infine, e alla fine, per fortuna, l’editoriale svetta sopra i cieli della comicità da caserma  quando rassicura il lettore sul fatto,  mai dimostrato, che “la sinergia di immagine, dunque, fra Trentino e vino del Trentino può funzionare”. E qui scoppia la risata. La risata della risate. Quella che ci seppellirà. Tutti insieme. Appassionatamente. Forse.