Caro Max, mi chiedi un’idea. È strana la vita, pensavo che le mie idee fossero già molto chiare. Da parecchi anni, infatti, insieme a qualche raro amico – ne cito un paio: Angelo Rossi e Mario Pojer – e alla carovana di giro di Trentino Wine e di SKYWINE, sforniamo idee e progettualità: se avrai la pazienza di sfogliare Trentino Wine ne troverai a bizzeffe. Forse non sei stato abbastanza attento. O forse, più probabilmente, noi siamo dei pessimi comunicatori e non riusciamo a farci capire e a farci sentire.
Comunque, ancora una volta ci riprovo.
Io non penso che oggi il problema del vino trentino riguardi la comunicazione. Anche, forse, ma è secondario. E non è nemmeno una questione di qualità. Che indiscutibilmente e mediamente c’è. È, invece, a mio parere, un problema di reputazione territoriale. E questa è una questione che va oltre il vino: per esempio riguarda anche anche il latte e i suoi trasformati.
Il tema, quindi, è prioritariamente politico. Non di comunicazione. E politicamente va affrontato. Perché la facilità non semplifica, Max.
Per non farla lunga e siccome tu mi chiedi proposte concrete. Ecco qui. Anche se so che ne rimarrai deluso: perché ti aspetti progetti di comunicazione da realizzare dall’oggi al domani.
Intanto credo che la vitivinicoltura abbia bisogno di una riforma profonda del suo strumento politico: Consorzio Vini. La mia proposta, che è anche quella di Angelo e di Mario, è questa: torniamo indietro, torniamo al modello del Comitato Vitivinicolo. Cioè ad uno strumento interprofessionale e paritetico, che rappresenti in maniera equilibrata industriali, imbottigliatori, vignaioli e vignaioli collettivi (cantine sociali di primo grado). Sul modello del Comité Interprofessionnel du vin de Champagne (CIVC). Questa proposta è stata reiterata in molte sedi e l’estate scorsa è stata illustrata anche all’assessore all’Agricoltura della PAT, nel corso di un gradevole e ristretto incontro ferragostano. Naturalmente è stata giudicata pressappoco irricevibile. Ma io, e qualcun altro, siamo convinti che solo partendo da qui, dalla riforma dello strumento di autogoverno del settore, si possa ricominciare a parlare di vino e di territorio. Una proposta che va in questa direzione, del resto, è stata formalizzata recentemente anche dalla FIVI nazionale. Tanto per dire che non siamo i soli a pensarla in questo modo.
In secondo luogo considero come passaggio pregiudiziale rimettere mano alle denominazioni e ai disciplinari. L’obiettivo è quello di introdurre una differenziazione fra viticoltura industriale e fortemente internazionalizzata (la Doc Venezie del Pinot Grigio, facilita questo processo) e viticoltura artigianale, prevalentemente (ma non esclusivamente) focalizzata sulle coltivazioni di collina e di montagna. In un orizzonte che leghi di più il vino ai suoi territori di origine: Cembra, Rotaliano, Toblino, Lagarino o Isera, Terradeiforti. Superando lo sbrindellamento varietale di oggi. Figlio di una visione vetusta e ancorata al passato. Questa idea è stata formalizzata in un documento ufficiale proposto, e cassato, durante l’audizione pubblica, la primaveraa scorsa, per la riforma della DOC Trentino. Era una proposta concreta. Elaborata da noi e sottoscritta da numerosi soggetti, individuali e collettivi, che in Trentino si occupano di vino. Questo per dire, che a differenza di quel che pensi tu, qualche proposta la abbiamo fatta.
Tralascio i temi della sostenibilità, del biologico dei PIWI, del Protocollo di Lotta Integrata, perché la farei troppo lunga.
Sono convinto che prima di avventurarsi in qualsiasi genere di discussione sui progetti di comunicazione, vadano risolti questi nodi, che sono nodi politici. In una visione delle cose che riesca a far correre su binari paralleli e perfino convergenti vino industriale e vino territoriale. Mi dirai che questo è il libro dei sogni. Ma io ti rispondo che questo è ciò che accade in tutto il resto del mondo, dove pure molte tensioni fra industriali e vignaioli ci sono, ma dove c’è un valore prioritario che accomuna tutti: il territorio e l’origine. Ovunque, tranne che in Trentino. E perdonami, Max, ma io sogno un Trentino normale. Solo normale. Questo me lo concedi?
Poi, Max, fidati, tutto il resto viene da sé: basta copiare da ciò che si fa normalmente e quotidianamente in altri distretti di Qualità, da Bardolino, alla Valpolicella, da Barolo al Chianti. Tanto per fare esempi di cui tutti conoscono il valore. E non cito l’Alto Adige, perché so che non ti piace.
Vuoi esempi concreti di comunicazione: le Anteprime, le Giornate dedicate alle singole tipologie, gli uffici – bistrò di rappresentanza dove agire pubbliche relazioni, fra Milano, Monaco e Bologna. Insomma, niente di originale. Niente di nuovo, solo quello che si fa serenamente, e faticosamente, in ogni distretto vinicolo che si rispetti. Non c’è niente da inventare. Ma prima, prima di tutto, va riformato politicamente questo settore. Altrimenti, tutto è inutile. Ed è altrettanto inutile fare quello che si sta facendo ora: incaricare la Strada delle azioni di animazione territoriale. Una scelta che non sposta le cose di un millimetro. Perchè la facilità non semplifica, Max.
Tutto qui. E scusa se è poco. Anche se a te tutto questo sembra un remare contro e una rottura di balle.
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