Tenuta Bellaveder – Faedo

Fra tanto parlare di vini, ogni tanto rimbalza sulle cronache la mai sopita questione dei Consorzi di tutela e la gente non capisce bene il perché di tanta polemica. Ragionando di pancia si archivia tutto come se fosse la solita corsa alla seggiola. Non è questo il caso e in Trentino meno che altrove. Qui infatti, c’è un’antica tradizione in materia, seconda solo a quella chiantigiana degli anni ’30 e addirittura prima in Italia (1949) per quanto riguarda la moderna forma interprofessionale. Si chiamava Comitato Vitivinicolo e operò per 50 anni tondi con meriti indiscutibili per il riordino e la crescita del settore. Parlo di meriti perché era un’autodisciplina volontaria, mentre i soggetti istituzionali come la Provincia e la CCIAA sostenevano perché di fatto obbligati. I veri attori di tutto questo, quindi, sono stati i vitivinicoli stessi, allora come oggi inquadrati nelle categorie delle Cantine sociali, dei Commercianti-Industriali e dei Produttori singoli che si amministravano su base interprofessionale, appunto, ma anche su base paritetica, in modo che nessuno si sentisse in minoranza. Del resto, non c’erano soldi da dividere per i singoli, ma solo fondi loro e pubblici da investire per la crescita comune e il buon nome del Trentino vitivinicolo.
Nel corso dei 50 anni, rispetto all’immediato dopoguerra, gli equilibri fra categorie andarono modificandosi a vantaggio del modello cooperativo sostenuto da condivisibili scelte politiche. Così, sul finire degli anni ’90, le Cantine sociali superarono l’80% delle uve prodotte e dei vini venduti sfusi o imbottigliati. Lo squilibrio nell’Organismo interprofessionale portò dalla classica suddivisione di un terzo dello spazio per ciascuna categoria ad una nuova parità al 50% fra cooperative da un lato e commercio-industria e produttori singoli dall’altro. Una formula che non poteva funzionare per due motivi: 1. Perché i non cooperatori avevano scopi professionali diversi che impedivano una linea comune, 2. Perché nello Statuto era stato previsto che la Presidenza fosse comunque espressa dalla cooperazione (per via dell’80%). L’ultima parola, insomma, l’avrebbero avuta le Cantine sociali e questo è stato il vulnus che ha minato gli anni del Consorzio Vini che dal 2000 è subentrato all’Organismo precedente.
Quest’ultimo sembra un giudizio di parte, ma in effetti non è così: se una compagine sta assieme per obbligo (diktat ricattatori legati alle liquidazioni) o per opportunità (contributi pubblici alla promozione) il volontariato e la libera scelta svaniscono e con questi anche il buon nome del Trentino vinicolo. Sul punto, i dati sono ormai brutali nonostante che le liquidazioni – fra alti e bassi – continuino a tenere, ma anche qui bisogna essere chiari: esse tengono in quanto drogate dal business delle grandi aziende che stanno sul mercato globale con vini di prezzo anche non locali. Altro è considerare quanto (poco) remunera il vino trentino non sorretto da severe e convinte politiche di territorio come si fa presso i nostri vicini.
Il discorso, quindi, torna al Consorzio che è (dovrebbe essere) al timone. Con metafora marinara, la barca trentina sta in rada mentre al largo incrociano le navi-container. Anche nel porto si beve più Prosecco che Trento e i vini tranquilli trovano mercato solo nella GDO a prezzi impossibili. Una triste realtà che fra un po’ potrebbe far sparire anche i Vignaioli, come anni fa sparirono decine di commercianti di vino, e con i Vignaioli anche ciò che rimane dell’ultimo scampolo di buon nome dei grandi vini del Trentino. Un’ipotesi alla quale non vogliamo né possiamo credere, perché la soluzione è dietro l’angolo, basta volerla cogliere evitando che il gatto continui a mordersi la coda.
Orbene, dato che la PAT si è colpevolmente chiamata fuori, lasciando che le politiche le sviluppassero i grandi complessi del business – che il territorio lo stanno sfruttando, ma sul quale non investono gran che (siamo al minimo sindacale solo per l’impegno – obbligato – nella sostenibilità)- dato questo cioè, non rimane che un deciso ritorno alle origini (in tutti i sensi) nella consapevolezza che anche il momento industriale ha tutto da guadagnare da una rinnovata intesa fra tutti gli attori in campo. Quelli del business che assicurano redditività annuale e quelli del territorio (Cantine di primo grado e Vignaioli) chiamati all’unisono per un suo rilancio vigoroso sul piano dell’immagine e della notorietà.
Sullo sfondo abbiamo oggi il nuovo Testo Unico della Vite e del Vino nazionale che ha volutamente rinviato ad un prossimo Decreto attuativo la materia della governance dei Consorzi di tutela. Si parte da un pasticcio europeo che anni fa divise gli operatori non più come sopra esposto, ma salomonicamente fra viticoltori, trasformatori e imbottigliatori con aziende che mettono i piedi in tre scarpe. L’inciampo è garantito, ma nessuno vuole fare ammenda. E il Trentino sta a guardare, intanto si tira avanti.
Fosse stato questo l’atteggiamento dei nostri padri nel dopoguerra, i commercianti avrebbero continuato ancora per anni a maltrattare i produttori. Che sia oggi il management cooperativo-industriale ad asfissiare a suon di liquidazioni il legittimo e sacrosanto orgoglio dei produttori di primo grado e dei vignaioli è materia che gli orfani della PAT devono prendere in mano da soli, convincendo chi di dovere ad un modello che tuteli entrambi, senza discriminazioni.
Per questo bisogna agire ora e subito, proponendo – almeno per il Trentino, ma si potrebbe far scuola anche altrove – un’Organizzazione interprofessionale e paritetica fra chi fa business industriale (ancorché cooperativo) acquisendo aziende e vini dove conviene e chi invece è costretto al territorio e che patrimonializza col suo buon nome.
Le posizioni dei big sono ancora molto distanti e le strategie sembrano divergere ulteriormente: Il Consorzio Vini, forte di alcune decine di aziende agricole su una novantina di Soci, mira a consolidare formalmente un modello che gli garantisce sia il riconoscimento ministeriale, sia l’erga omnes che lo autorizza ai controlli di legge anche presso i non associati. Il Consorzio dei Vignaioli, invece, forte più in immagine che nei numeri con una sessantina di Soci dei quali una ventina contemporaneamente anche Soci del Consorzio Vini, che non accetta di confluire in un unico Organismo per palese mancanza di concreta e non solo formale rappresentatività.
Come detto, basterebbe che chi tiene i cordoni della borsa (l’assessore Dallapiccola) li obbligasse amabilmente/risolutamente all’intesa mettendo sul tavolo il bisogno inderogabile di rilanciare – tutti assieme – il futuro del nostro Trentino vitivinicolo. Invece di accettare la comoda tesi del Consorzio Vini e finanziare ad es. la partecipazione ai prossimi Prowein e Vinitaly, dove anche quest’anno marceremo separati.
Se l’azione pubblica, come pare, non dovesse concretizzarsi, non resterebbe che sperare in una visione lungimirante di chi non teme per la propria seggiola e che per una volta si dedicasse a un tema ecumenico e nobile a tutto tondo. Gli sarebbero grati sia la maggioranza silenziosa che condivide quest’idea, sia la futura generazione di operatori di ogni categoria perché erediterebbe un Trentino migliore e più solido.