Esiste la menzogna della letteratura, esistono l’auto da fé della letteratura e la sua impertinente necessità.
Esiste un legame viscerale tra progresso civile, memoria letteraria e ardore interpretativo di quegli strati, umanissimi e necessari, che hanno costruito identità ed alterità; esiste l’endiadi visionaria della cultura, questa dea splendidamente “inutile” (nella vulgata della mercificazione integrale dell’essere uomini), che conquista faticosamente i pensieri e il cuore della società che dirsi voglia “civile”.
Questo legame sotterraneo ed ineludibile spiega la forza eversiva della prosa pirandelliana che coarta le logiche di una società rappresa nella forma, nel vincolo, nel travestimento per esaltarne il libero e magmatico flusso di conoscenza integrale del reale. Moscarda, Mattia Pascal, Belluca sono i protagonisti di una palingenesi, di una rifondazione dell’identità, di un’identità negata, di un’apostasia del reale certificato e controllabile attraverso i meccanismi distorsivi e corrosivi di un’irreggimentazione sociale e culturale. Partiti alla conquista di tutte le perplessità del mondo, sono ritornati ebbri di sconfitta. Sono “le mosche del capitale” che non celano più l’orrore della Gorgone. Per loro la verità è un dio minore, ma è pur sempre necessaria, esprime la tensione dell’essere contro la stanca abitudine ad esserci; esserci, questa malattia contratta per noia che non sviluppa anticorpi, ma concresce nelle pieghe dei vortici di un insensato divenire. E allora Pirandello diventa Manzoni e Manzoni è Dante e Dante è Omero: tutti archegeti della forza rigenerante della paideia, dell’humanitas, della controcultura.
Perché la letteratura è solo la confessione resa a se stessi che la vita è “nulla” se la parola non le restituisce l'”essere”. E per l’estensore vale il non luogo a procedere.