Nei giorni scorsi Bruno Lutterotti è stato confermato alla presidenza di Consorzio Vini del Trentino. Una poltrona su cui ha già fatto un buon rodaggio: un anno fa era diventato presidente pro tempore dopo le dimissioni di Alessandro Bertagnoli, il viticoltore vegano sacrificato dai suoi (l’arcipelago Cavit) sull’altare dell’Ape Maia . Ma Bruno Lutterotti è anche presidente della Cantina Produttori di Toblino e soprattutto siede sulla poltrona più alta di Cavit, il consorzio industriale di imbottigliamento e commercializzazione che raduna 10 cantine sociali e fattura poco meno di 200 milioni all’anno. Insomma, in questo momento Lutterotti è l’uomo chiave del vino trentino. Gli abbiamo chiesto un’intervista: nove domande e un gioco. E lui ha accettato di rispondere e di giocare.

Bruno Luterotti ©2017 ph Romano Magrone

A bruciapelo, per rompere il ghiaccio: all’indomani della sua nomina lei ha annunciato la costituzione di un tavolo per l’innovazione, affidato ai giovani. Ma è davvero sicuro che l’innovazione abbia a che fare con l’anagrafe? Non le sembra di scadere in un banale giovanilismo da rotocalco?

«Posso concordare che l’innovazione non abbia (sempre) a che fare con la data di nascita, ma non mi pare di avere visto innovatori di 60 anni nel mondo. Io credo che l’operazione, che nasce da un’esigenza concreta e soprattutto sincera, sia meritevole di un tentativo».

Passiamo alle cose più serie. La sua conferma al vertice di Consorzio suona a condivisione di una linea che ha prodotto una larga adesione all’Ape Maia. Ma a chi serve questa certificazione? Al territorio o alla produzione e alla commercializzazione industriali?

«Il SQNPI – chiamiamolo con il suo nome – è una certificazione nazionale importante, perché vede per la prima volta la totalità dei viticoltori di un territorio rispettare un disciplinare vite molto attento all’ambiente, agli operatori agricoli ed anche agli ospiti. La valenza è territoriale e in netta coerenza con il prodotto turistico del Trentino. Scusate se è poco! Ciascun percorso di certificazione va visto come un costante miglioramento dell’approccio agronomico: quale negatività può portare?».

Il Consorzio si è speso molto sul terreno dell’Ape Maia. Farà il medesimo sforzo, anche economico, sul fronte della viticoltura biologica?

«La domanda potrebbe essere semplicemente elusa con un laconico si, ma non farò facili proclami. Parlare di biologico è una cosa seria e nella mia cantina di Toblino ad esempio lo sappiamo bene. Diciamo – una volta per tutte – che non tutto può essere biologico; l’approccio va ponderato in base alla situazione ed al terroir. Certamente il Consorzio farà i passi necessari anche in questo senso, ma non sarà l’unica priorità».

La prima fase della sua presidenza ha raggiunto l’obiettivo della certificazione, ma ha mancato l’obiettivo primario che lei si era dato un anno fa, quello della convergenza di tutti gli attori nel Consorzio. Considera ancora prioritario il dialogo con i Vignaioli?

«Assolutamente si. Risulta però difficile trovare ascolto e provare a dialogare con chi ha posizioni ideologiche e preconcette verso il mondo cooperativo, che non è il problema, ma un’opportunità. Partendo quindi da presupposti di reciproco rispetto credo si possa riavviare il dialogo».

Lei ha annunciato un tavolo di lavoro per studiare ipotesi di passaggio alla DOCG. Eventuali nuove categorie dovranno convivere con le rimanenti. Il tavolo di lavoro avrà carta bianca o dovrà operare entro un binario pre-indicato? A proposito lei pensa più a DOCG varietali o a DOCG territoriali?

«Gli ambiti di lavoro del tavolo DOCG verranno stabiliti dal Consiglio di Amministrazione. Personalmente in un primo momento mi concentrerei sulle DOCG varietali, vista la presenza di alcuni “campioni” trentini potenzialmente in poll position».

In Trentino, a fronte di una sostanziale tenuta sul piano della redditività assicurato da politiche di brand, si registra un ridimensionamento dei plus che altrove è apportato dalle denominazioni di origine. Non crede sia tempo di ridisegnare un quadro moderno in grado di conciliare anche l’aspetto territoriale senza soffocarlo?

«Non ho la bacchetta magica e mi pare che il tempo di ridisegnare il futuro del vino trentino che valorizzi in maniera migliore il territorio è all’ordine del giorno da qualche lustro e ci sarà un perché. Dobbiamo partire dal presupposto che il Trentino vinicolo – ci piaccia o no – si è sviluppato su 2 grandi poli cooperativi uno di primo ed uno di secondo livello; questo ha arricchito tutti indistintamente. Vi sono poi straordinari cantine e viticoltori che testimoniano quanta potenzialità nei vitigni autoctoni e di qualità vi sia. Vedere questi mondi in antitesi è un presupposto errato: non tutto ciò che è cooperazione deve essere connotato negativamente e non tutto ciò che è territorio e vignaioli è sempre positivo. Le sfumature e soprattutto le aree di cooperazione sono amplissime e comunque non esiste un “vino industriale” in Trentino, visto che la produzione totale trentina non supera il 2% di quella nazionale. Certo indubbiamente il brand territoriale ha ampi margini di miglioramento, ma dovremmo in primis capire su quali tipologie puntare in maniera più convinta».

Tutte le più affermate zone vinicole mondiali hanno un certo rapporto fra superficie a vigneto e numero di imprese che etichettano i vini d’origine dei rispettivi territori. Il Trentino è in controtendenza: 1 ogni 60 ettari; a conti fatti, mancano all’appello oltre 300 aziende con le rispettive referenze. Lei cosa ne pensa? Cosa ne pensa da presidente di Consorzio e da presidente di Cavit?

«È difficile fare raffronti “mondiali” con situazioni, dimensioni, storicità e territori completamente differenti. Come ricordavo prima, non si può prescindere dalla storia di un territorio e se il Trentino è un modello per molti paesi nel mondo per il sistema cooperativo, dobbiamo riflettere sull’influenza che lo stesso ha avuto nello sviluppo dell’economia locale: 3 aziende cooperative trentine sono ai vertici della viticoltura nazionale e molti ce le invidiano.
Cambiando cappello, le rispondo da presidente di CAVIT dicendole che stiamo sviluppando un progetto proprio per stimolare, favorire e promuovere la nascita di nuove aziende e diffondere la cultura del “vignaiolo”».

Consorzio Vini, per il suo carattere interprofessionale, manca della pariteticità pretesa dai Vignaioli per essere faro univoco per un ulteriore sviluppo. Lei pensa di riuscire a convincere i cooperatori a sdoppiarsi fra momento territoriale (vignaioli collettivi) e momento industriale, mantenendo nella sommatoria delle rappresentanze gli spazi odierni? Quali difficoltà vede?

«Nella premessa Lei postula dei presupposti politico – strategici che sono al momento ben lungi dall’essere condivisi. La pariteticità è sempre una bella parola democratica, persino cooperativa; ma accanto a pari diritti, richiede anche pari doveri. Non credo sarebbe d’accordo con una società ove Lei mette il 98% e il suo socio il 2%´, ma le decisioni le prendete al 50%. È una provocazione evidentemente, ma dobbiamo sempre ricordarci i fatti concreti e non gli auspici. Lavoreremo con il Consiglio di Amministrazione senz’altro nell’ottica di creare quei presupposti tendenti alla pariteticità o quantomeno che possano tenere in debito conto le sensibilità e le valenze – straordinarie – dei vignaioli, ma sempre cum grano salis».

In passato il Trentino, anche grazie a San Michele, è stato a lungo fucina di sviluppo a livello anche nazionale. Oggi San Michele è una realtà internazionale, come internazionalizzate sono molte cantine di successo, eppure il territorio non emerge più nelle liste dei vini. Cosa manca a questo benedetto territorio per affermarsi?

«In Trentino la qualità viticola intrinseca è certamente migliore di quella percepita, ma facciamo fatica a comunicare territorialità. Siamo partiti anche molto più tardi rispetto ai maggiori competitor e basti pensare al Trentodoc per capire invece come il territorio sia in grado di emergere in maniera straordinaria. Dobbiamo puntare su alcuni vini territoriali in maniera più convinta e sfruttare il vantaggioso supporto delle cantine cooperative, aiutando nel contempo lo sviluppo di iniziative locali che creano valore aggiunto per il prodotto vino. Un maggior legame poi con il marketing territoriale legato all’enoturismo per far vivere l’esperienza viticola anche agli oltre 6 milioni di ospiti italiani e stranieri è un altro punto fondante».

LO SCHERZO

Chi sono, oggi, gli ambasciatori del territorio e dell’enologia trentini? 

1) vino: .Trento Doc
2) Cantina:  Produttori di Toblino
3) Enologo: I tanti bravissimi enologi di San Michele
4) Sommelier: Roberto Anesi
5) Giornalista: Francesca Negri
6) Ente: Consorzio Vini del Trentino
7) Associazione: Perché? Ci sono anche associazioni?