Abbiamo letto che per la corsa alla presidenza della Federazione Trentina della Cooperazione il professor Geremia Gios,  direttore del dipartimento di economia dell’Università di Trento, si è defilato dal gruppo di candidati riservandosi di fare qualcosa di meglio e lo ha fatto col suo Manifesto per una rivoluzione felice. Infatti, rifondare la Federazione oggi, senza almeno tentare di modificare l’approccio della base sarebbe stato inutile, proprio come è stato vano il tentativo reiterato di trovare un candidato di sintesi. Il movimento cooperativo è talmente articolato – dal volontariato sociale ai consorzi di secondo grado passando dal settore di un credito dagli incerti legami territoriali – da essere la più colossale entità socio-economica provinciale. Un colosso in crisi d’identità che, in tutta evidenza, non si può più gestire come ai bei tempi, quando la globalizzazione non c’era. Nè si può gestire solo tutelando gli interessi dei secondi gradi, figli della globalizzazione appunto. Gios, e noi con lui, sosteniamo la necessità di regole specifiche per gestire i beni collettivi che sono la base della nostra autonomia. Non è più tempo per strabismi. Nel mondo vitivinicolo ad esempio dev’essere parso comodo (molto comodo), delegare via via a Cavit ruoli che appartengono alle Cantine di primo grado. Il risultato è che le Cantine sono oggi ridotte a meri centri di raccolta con oltre il 90% del vino direttamente conferito sfuso al Consorzio d’imbottigliamento. L’uva non è una mela, come il vino non è latte (semmai formaggio). È storicamente altro, da millenni e c’è da meravigliarsi di quanti qui si accontentino, piegandosi alle esigenze industriali in cambio di un sordido vitalizio e disperdendo un grandioso patrimonio, anche di biodiversità, accumulato in passato. Chiaro che ai Vignaioli singoli può anche star bene che il 90% del vino trentino se ne stia tutto dentro solo un paio di brand, per giunta di prezzo medio-basso, ma non è certo questo il modo di tutelare e valorizzare un territorio difficile com’è il Trentino. Neanche fossimo una Romagna qualsiasi! Eppure è così… .
È così anche per i miei colleghi enologi che, dimentichi di essere un anello fondamentale della filiera, da anni ormai hanno rinunciato al loro ruolo, limitandosi di fatto a spezzare il capello in quattro in raffinate degustazioni guardandosi bene dal chiedersi il perché e il percome quel vino sia giunto nel bicchiere e soprattutto quanto sia rappresentativo del territorio tutto. Un ordine che viene dall’alto, dai potentati che non tollerano sgarri alla linea del leader massimo abituato ad ascoltare poco e comandare molto, dalla varietà da mettere a dimora, al conferimento totale fino ai marchi onnicomprensivi. Chi ha sgarrato ha pagato duro, col licenziamento in tronco. Colpirne uno per educarne cento, anzi, duecento tanti quanti sono gli enologi trentini. Una lezione che ha ammutolito tutti, cooperatori e privati. Compresa l’associazione territoriale di categoria che non ha avuto il coraggio nemmeno di esprimere una parvenza di solidarietà ai colleghi (sì, plurale, perché sono ormai diversi).


Sono anni che con Mario Pojer (membro del direttivo enologi e Vignaiolo illustre) si insisteva per far interessare i soci alla politica vitivinicola col solo risultato di un agile documento programmatico puntualmente affossato dal Consorzio Vini cui doverosamente era stato consegnato 10 mesi fa. A febbraio scorso andò deserto un incontro per proseguire comunque con l’approfondimento: assenti intimoriti. Avete letto bene, la sede dell’incontro (avviso scritto, non carbonaro) al Maso di Sorni, non a Corleone.
Pojer non ha retto più e all’indomani ha rassegnato irrevocabili dimissioni scritte, senza che nulla succedesse, nemmeno una telefonata dopo 30 anni di onorato (?) servizio ai colleghi. Per questo ho tenuto duro un altro mese, perché l’altro giorno si è svolta l’assemblea annuale, un’occasione per dimettermi denunciandone i motivi alla ventina di presenti in nome e per conto – credo- dei 180 assenti (fra intimoriti e disinteressati). Per non dilungarmi oltre, basti dire che nel documento programmatico sopra richiamato c’è la proposta di attivare 350 nuove aziende (200 delle quali di area cooperativa) per rilanciare altrettante etichette trentine. Apriti cielo! Staranno brindando al suicidio di due nemici… un paio di ostacoli in meno sotto al calcagiara.
Brindino pure, di questo passo dovranno berselo tutto o regalarlo.
Noi intanto, tifiamo per il compagno di classe Geremia, l’unico mastino all’orizzonte in grado di ricondurre gli industriali all’industria (ancorché cooperativa) e indurre vignaioli singoli e associati ad assumersi in prima persona le sorti del loro territorio.