Qualche tempo fa l’assessore all’Agricoltura del Trentino, non prima di avermi attribuito dal qualifica dell’utile rompicoglioni (detto fra di noi la considerai una medaglia), mi chiese un punto di vista sul settore vitivinicolo provinciale.
Gli risposi così: “Il sistema andrebbe rivoltato come un calzino; ma per farlo bisogna avere coraggio, perché bisognerebbe rimettere al loro posto i capataz cooperativi che da vent’anni a questa parte dominano incontrastati sulla politica agricola provinciale. E bisognerebbe disarticolare, nella sostanza perché le operazione di marketing non bastano e soprattutto servono a poco, l’equazione fra Trentino ed enologia industriale e seriale. Ma per fare questo, appunto, c’è bisogno di uomini coraggiosi e con attributi da supereroe.  E in giro non ne vedo”.
Credo che l’assessore non abbia apprezzato, perché non ne seguì alcuna interlocuzione. Del resto poi c’è stata la giostra di Vinitaly con il suo codazzo di trionfalismi e di entusiasmi.
Ma calato il sipario sulla fiera veronese e smorzato il volume sulle spacconate che la hanno preceduta, accompagnata e salutata, siamo tornati tutti a casa a fare i conti, o a non farli, con una situazione putrescente e incarognita: il Trentino– con la sola eccezione, forse, della DOC TRENTO – continua ad essere irrimediabilmente appiattito sugli standard egemoni del vino merce cooperativo. Che, capiamoci, mediamente è un vino fatto bene, generalmente buono e spesso buonissimo. Ma resta un vino merce, perché, al pari di un bullone o di un fustino di detersivo, ha una scarsa propensione alla narrazione territoriale e un’insignificante carica identitaria. E questa è una marcatura di sistema; una qualificazione politica che caratterizza il prodotto indipendentemente dalla tessitura enologica che lo definisce.

Appunto è un problema di sistema. Non del vino. Una definizione che si riverbera inevitabilmente anche sulla percezione del consumatore e che suggerisce al mercato di collocare il prodotto trentino, anche quello più rappresentativo, su fasce di prezzo medio basse.
Mi sembra questa l’unica spiegazione plausibile – e spero di offrire uno spunto di analisi all’assessore – alla recente offerta d’acquisto lanciata dall’Azienda di Stato svedesenei paesi nordici i prodotti alcolici sono in regime di monopolio – per la fornitura di 56 mila bottiglie di Teroldego e Lagrein di origine trentina (il requisito della denominazione significativamente non è specificato nel bando svedese) collocate in una forbice di prezzo fra 1,8 e 2,3 euro. Un valore che sacrifica il vino trentino in fondo alla scala delle preferenze degli svedesi. Che invece, per esempio, sono disposti a spendere fino a 2,8 euro per una bottiglia di Bardolino o 3,6 euro per un Vermentino Sardo, per un Chianti o per un Nerello Mascalese. E addirittura 6,6 per un Etna Rosso. E via di seguito.
Certo il mercato è grande e il mondo ancora di più. E la Svezia è un piccolo Paese. Ma forse proprio la landa scandinava ci aiuta a capire perché un bicchiere di Bardolino sia più apprezzato di un bicchiere di Teroldego (o di Lagrein); perché mentre la piccola (ma neanche tanto) Doc gardesana da qualche anno ha scelto con rigore di declinarsi dentro la suggestione territoriale, il confuso e confusionario vino trentino, anche nelle sue espressioni più rappresentative e identitarie (le due varietà citate) rimane strangolato al cappio del modello industrialista e serializzato, e quindi a scarso valore territoriale. Il modello pinotgrigista ha fatto scuola e si è impossessato del sistema. Lo ha plasmato a sua immagine e somiglianza e nel frattempo ha cannibalizzato il territorio e le sue autonomie. E detto per inciso è proprio il Pinot Grigio (genericamente italiano) il vino meno apprezzato dagli svedesi, che in questi giorni sono interessasti a comprarne 60 mila bottiglie. Ma senza spendere più di 1,8 euro al pezzo.