Fabio Rizzoli non me ne vorrà se svelo che lui lo chiamava El Lucianon. Un epiteto, una sintesi perfetta. C’è l’accrescitivo, guadagnato sul campo e riconosciuto dal leader maximo della vitienologia trentina. C’è l’uso del nome senza il cognome non tanto perché i Lunelli sono altro, quanto perché lui, singolo, si reggeva da solo. C’è poi la forma dialettale che riconduce al territorio, quello che i due hanno interpretato in forma opposta perseguendo i rispettivi traguardi. L’uno sfruttando tutte le occasioni possibili inventandosi anche quelle all’apparenza impossibili, l’altro – lento pede – ad accumulare in silenzio successi concreti sulla via della qualità senza compromessi. Quella della cooperazione d’antan per la quale ha lavorato una vita prima di dedicarsi appieno alla spumantistica classica, mettendosi in gioco e vincendo anche lì.

Ecco, El Lucianon se n’è andato come ha vissuto, in punta di piedi senza disturbare. Lasciando, sornione com’era, che siano gli altri a giudicare. Non ricordo che avesse mai espresso un’opinione tranciante o preteso di imporre un’idea sua. Faceva e taceva, ascoltando e sempre carpendo, elaborando. Sceglieva lui le montagne da scalare e scartando quelle che riteneva irraggiungibili o inutili da aggredire.

Un trentino tipico insomma, di quelli con scarpe grosse e cervello fino, i piedi ben piantati in terra e le antenne ricettive a captare opportunità concrete. 

Quell’etichetta rosso scuro bordata d’oro con l’effige di Re Rotari (che volerà poi oltre il confine longobardo) capeggiò per lunghi anni al Concorso della Confraternita come marchio fondante di una visione coraggiosa, di una sfida vinta da cooperatori non intimoriti, semmai stimolati dai blasoni del Teroldego. Una varietà autoctona che Luciano Lunelli ha nobilitato dimostrandone la grande versatilità partendo dai terreni piè adatti, dal portainnesto più giusto, dalla coltivazione più puntuale, dalla selezione più accurata, fino alle più innovative tecniche di vinificazione e affinamento. Allungando così anche la filiera che prima era ferma su due punti: il Teroldego in quanto tale (da vino rosso rubino da mensa al primo DOC rotaliano) e un po’ di rosato, perlopiù miglioratore di vini base Schiava. Luciano non dovette fare di necessità virtù, il Teroldego si vendeva bene, ma non si accontentò, sperimentando la potenzialità di quell’uva sana facendola fermentare anche in autoclave in macerazione carbonica per cavarne il massimo subito. Come i francesi col  Gamay per il Beaujolais Noveau. Ebbe di nuovo ragione, in qualità vinceva il Terolgego Novello tant’è che molti in Trentino e in Italia vi si butteranno a pesce. Che poi sul punto nel Bel Paese si siano percorse strade alternative, derogando alla varietà e alle finestre temporali di commercializzazione vanificando così tanto una pronta cassa per i produttori quanto un godimento stagionale per i consumatori, fa parte della nostra stupidità. 

Quella partita Luciano se la è comunque giocata fin che ha retto, fornendo base-novello di Teroldego a quanti lo chiedevano, nulla potendo fare per evitare diluizioni e deroghe. 

Anche per questo si concentrò ancor piè sulle selezioni raggiungendo l’apoteosi col Clesurae.

Progetto fantastico con valenze ben oltre l’etichetta. Una storia partita bene e bisognosa di consolidarsi come le selezioni in tante altre Cantine di primo grado, ma troppo presto condizionate dalla piega perversa impressa dalla globalizzazione in salsa trentina: cioè dalla loro sistematica riduzione a meri centri di raccolta a vantaggio dei due oligopoli.

Un processo ben chiaro anche a Luciano, ancorché non condiviso, ma verso il quale si è isolato, interessandosi sempre piè alla spumantistica classica. 

Si lasciò contagiare dall’entusiasmo di Leonello Letrari e dai colleghi dell’Equipe 5 che al colmo della carriera avevano visto nelle bollicine l’università della tecnica enologica, un esempio a pochi isolati dalla sua Cantina Rotaliana. Capi subito che non era il caso di coinvolgere la cooperativa nel classico, cosicché ci provò in proprio. Nacque Abate Nero e fu tosto nuovo successo.

Orbene, cosa può pretendere un enologo più di quello che ha dimostrato per decenni. 

Ovviamente nulla, ha fatto quello che gli piaceva fare e lo ha fatto al massimo, lo ha fatto non tanto per sé quanto per i suoi soci, schivo com’era e lontano da ogni arrivismo morale e materiale. Quindi generoso e onesto.

La sorte non gli è stata amica privandolo anzitempo della moglie, la stessa sorte che troppo presto lo ha tolto ora ai suoi affetti famigliari e a tutti noi. 

Con contrizione, a pensarci bene, gli devo delle scuse per aver insistito tempo fa per un suo maggiore coinvolgimento nella politica vitivinicola locale perché ne aveva l’autorità e ne avrebbe avuto anche la preziosa autorevolezza. Capisco oggi che il diniego era giustificato perché quello che già faceva esigeva il cento per cento ed è quello che ha dato.