C’è della bellezza nel vino. E a volte perfino una grande bellezza. Accade quando un vino comincia a raccontarti storie che non vorresti finissero mai. E a riportare in superficie ricordi fino ad un attimo prima sbiaditi dall’ombra del tempo.
Storie di campagna, di cantina, di sapere, di ambiente, di paesaggio. Storie di uomini e di donne. Spesso dimenticate, perché rispetto alla bottiglia, rispetto al vino, per lo più passano in secondo piano e restano chiuse nella penombra degli avvolti vinosi. E invece è questa, anche questa, la bellezza del vino: il racconto dell’uomo calato dentro il suo contesto e dentro le sue relazioni, sociali, professionali, politiche. L’uomo che produce l’uva. L’uomo che la trasforma in vino. E l’uomo che il vino lo custodisce nel tempo. A volte per tanto tempo.
Arrivavano questi pensieri l’altro giorno, mentre scorrevo l’elenco 2020 dei sempre troppo poco numerosi TRE BICCHIERI che il Gambero Rosso assegna al Trentino e mi imbattevo nel meritato scudetto ottenuto dal Vino Santo 2003 dei Produttori di Toblino.
Pensavo a quante storie, a quante memorie, a quanti ricordi si sono stratificati dentro questa bottiglia. Che oggi, occasione la menzione del Gambero, si disvelano, raccontando il tempo di una generazione.
Provo a metterli nero su bianco questi pensieri e queste suggestioni.
Le uve furono vendemmiate all’inizio degli anni Duemila quando la nuova moneta europea era ancora in fasce e basterebbe solo questa annotazione per descrivere il salto nel tempo che il vino riesce a farti fare.
Era il 2003. Un’annata segnata dalla calura afosa di un’estate torrida che lambì anche la Valle dei Laghi e le piante di Nosiola. A Toblino si scelse di mettere in appassimento – primo passaggio di questa ancestrale tecnica di vinificazione – solo una piccola partita di uva: poco più di 150 quintali, selezionati fra il raccolto migliore. Inizia così la storia di questo TRE BICCHIERI liquoroso di dense memorie.
La ricordo, quella stagione in Valle dei Laghi. C’era un gran fermento in quegli anni dalle parti di Toblino e attorno a questo vino. Il Vino Santo.

da sx e in senso orario: Carlo Filiberto Bleggi, Bepi Morelli, Giannantonio Pombeni e Lorenzo Tomazzoli – Ph: AGH – Alessandro Ghezzer

A capo della cooperativa, oggi guidata con piglio manageriale da Bruno Lutterotti e da Carlo Debiasi, c’era quell’elegantone di Carlo Filiberto Bleggi. Forse, dopo il marchese Carlo Guerrieri Gonzaga, l’uomo più raffinato ed elegante, di un eleganza quasi champagnosa, della varia umanità che abita il vigneto trentino. Ma non era solo forma ed estetica la sua; era anche conoscenza minuziosa delle dinamiche di territorio e del panorama enologico internazionale. Era una raffinatezza visionaria e di prospettiva, quella di Carlo Filiberto. Alla direzione dell’azienda c’era Giannantonio Pombeni, un enologo alla vecchia maniera e di vecchio stampo. Un uomo ritroso, forse un po’ ruvido e talvolta quasi burbero, ma solo all’apparenza; però capace di felici intuizioni e di slanci coraggiosi. In cantina, gli faceva da contraltare un altro enologo di vaglia e di territorio: Lorenzo Tomazzoli. Che a Toblino, a presiedere e a custodire la vita del vino, c’è ancora. Insieme, Giannantonio e Lorenzo, formavano una coppia perfetta, un duo perfettamente in sintonia che ha regalato al Trentino irripetibili risultati enologici. Furono loro i pionieri del biologico cooperativo; loro a ridare slancio, e con esiti sorprendenti, alle intuizioni geniali del vecchio Rebo Rigotti: penso ad una bottiglia come quella dell’Elimarò. Loro a cercare di risollevare dall’oblio una varietà quasi negletta e letteralmente massacrata dall’industrialismo agricolo come il Nosiola, guardando in alto e in avantissimo: e ne nacque un cru bianco che sfida il tempo e i luoghi comuni come il Largiller.
Del Vino Santo, poi, entrambi erano innamorati, forse fra i massimi, e sono così pochi, conoscitori di questa tipologia che abbina magistralmente tecnica, paesaggio, clima, varietà e tradizione. E rito. Il rito del tempo. Un tempo che pare non finire mai. E per rendersene conto basterebbe assaggiare una bottiglia, in circolazione ce ne sono ancora di splendidamente conservate e non è difficilissimo metterci sopra le mani anzi la bocca, risalente agli anni ‘60 del secolo scorso.
Uomini nati e cresciuti nell’alveo della cooperazione vitivinicola trentina e rimasti sempre un poco in penombra e lontani dai riflettori; credo più per indole che per snobismo. Forse per un’innata discrezione e una naturale inclinazione di stile.
Attorno a loro, attorno a Filiberto Bleggi, a Pombeni, a Tomazzoli, e attorno a Toblino, in quegli anni, gli anni della vendemmia che oggi ha ottenuto i TRE BICCHIERI, si muoveva uno sparuto ed entusiasta manipolo di vignaioli: vado a memoria e spero di non dimenticare qualcuno: i Pedrini, i Pisoni, i Poli (Francesco e Giovanni), i Pedrotti.  Insieme costruivano comunità: la comunità del Vino Santo.
Ricordo i loro racconti di viaggio, densi di esperienze e di suggestioni, al rientro da Jerez de la Frontera, dove frequentavano il Festival spagnolo di Vinoble, il più importante appuntamento mondiale del vino liquoroso e dolce, cercando di imparare e di portarsi a casa insegnamenti preziosi.
Da quei viaggi, da quelle esperienze, da quelle suggestioni, nacque Dulcenda, una preziosa manifestazione, che si esaurì troppo presto e che ha fatto la fine di tutte le cose buone che in Trentino nascono, e muoiono, ai margini del luna park istituzionale.
Il Tre Bicchieri 2020 di Toblino fu partorito allora. Dal crogiuolo di quel fermento che seppe entusiasmare cooperatori e vignaioli.

E poi, e poi c’era anche il compagno Bepi Morelli, l’istrionico cantore della Valle dei Laghi, ideatore, in anticipo sui tempi, della Mostra del Nosiola. Un trascinatore visionario, un figlio autentico del socialismo popolare di matrice trentina e battistiana, che sapeva quasi sempre portarti dalla sua parte; davanti ad un bicchiere di Rebo o di Nosiola, seduti ad un tavolino del suo ristorante, l’Aerhotel di Trento,  allora mi insegnava come non potesse esistere riscatto individuale senza riscatto collettivo. Senza riscatto di territorio. Ed era quello lui faceva e testimoniava, quotidianamente, nella sua Valle dei Laghi. Per la sua Valle dei Laghi. Per il Rebo. Per il Nosiola. Per il Vino Santo.

Una lunga storia di facce, di racconti, di sperimentazioni, di tecnica: ecco cosa c’è dentro quei 170 quintali di Nosiola messi in fruttaio nel 2003 e poi torchiati durante la settimana santa dell’anno successivo. Ecco cosa c’è dietro quei 36 ettolitri di vino che ci ha impiegato 12 anni a diventare Santo; un lungo riposo e una lenta concentrazione da cui nel 2016 è nato l’assemblaggio, sempre con la mano di Pombeni e Tomazzoli, di 25 ettolitri di vino, imbottigliati poi a fine 2017.
Ecco, per me, forse solo per me e senza averlo mai bevuto – ma prima o poi lo farò -, il Vino Santo trebicchierato di oggi, è tutta questa roba qui: quasi il film al rallentatore di una lunga e densa sequenza di ricordi e di memorie. Di facce e di storie. E questa è la bellezza del vino. Questa è la sua grande bellezza. La Santa Bellezza del Vino.


Chi è il Vino Santo Trentino Doc

(da Osservatorio Produzioni – Palazzo Roccabruna)

prestigioso ed esclusivo passito prodotto in poche migliaia di bottiglie; nasce dalla Nosiola coltivata in Valle dei Laghi. Ne vengono selezionati solo i grappoli spargoli, ossia quelli con acini grossi e ben distanziati fra loro che devono essere sufficientemente maturi per garantire un elevato quantitativo di zucchero. Durante l’appassimento sui graticci (arèle) le uve vengono attaccate da una muffa nobile (la Botrytis) che ne asciuga gli acini facendo concentrare gli zuccheri. L’azione combinata del tempo, dell’aria e della Botrytis, provoca un calo di peso dell’uva, oscillante fra il 50% e l’80%. Dopo alcuni giorni dalla pigiatura, il mosto viene separato dalla parte torbida, decantato e travasato in piccole botti di rovere. Qui inizia la fermentazione naturale, che, per l’elevata concentrazione degli zuccheri, procede molto lentamente per più anni. Con un invecchiamento che dura un minimo di cinquanta mesi ma normalmente arriva ai dieci anni, la produzione annuale di Trentino DOC Vino Santo è generalmente molto ridotta. Presenta un colore giallo ambrato, un gusto piacevolmente dolce con una equilibrata gamma di sensazioni che si concludono con una nota vellutata, un profumo intenso ed ampio, di passito, di frutta sovramatura (dattero e fico secco). Considerato da sempre nella tradizione popolare come vino dalle proprietà terapeutiche (corroborante) è particolarmente indicato per accompagnare i dessert a base di mandorle e il tipico zelten. Insuperabile abbinato ai formaggi erborinati. Eccellente come vino da meditazione. Temperatura di servizio 12° C.