Ieri l’Ansa ci informava che Alessandro Borghese, lo chef più belloccio del Belpaese, è stato scelto come brand ambassador dal Consorzio astigiano del Moscato. La notizia, tuttavia, era stata anticipata circa un mese fa da WineMag, la rivista digitale diretta da Davide Bortone. E allora? Allora a margine di questa notizia – non notizia, c’è un un prelibato, e amaro, aneddoto.

A suo tempo, le indiscrezioni uscite sul web magazine milanese, misero in subbuglio il consorzio astigiano. Che, evidentemente, si vide rompere le uova nel paniere; probabilmente perché immaginava un timing diverso, e debitamente orientato, per l’uscita della notizia. Legittimo. Ma il timing di un giornalista non può, e non deve, essere quello dettato dalle opportunità consortili o aziendali. Comunque, il servizio di Bortone fece saltare i nervi ai moscatisti piemontesi, tanto che ad inizio aprile il direttore del magazine fu raggiunto da una minacciosa missiva firmata dal presidente del consorzio astigiano, Romano Dogliotti: «… La divulgazione, non autorizzata, di qualsivoglia nominativo si traduce in possibili danni per il nostro ente e per quanti da tempo si stanno impegnando nella progettualità promozionale e di gestione della denominazione, sia in termini di immagine che di correttezza contrattuale». Un tono e un fraseggio tutt’altro che amichevoli. Una specie di “Hey ragazzino, mettiti in riga e soprattutto al tuo posto, altrimenti ti caviamo la pelle a suon di citazioni giudiziarie“. Il giornalista milanese, però, non si piegò e ieri, a meno da venti giorni dall’intim(id)azione, invece è arrivata la notizia. Strombazzata con tutti i crismi e gli stigmi che si addicono allo chef di auguste origine, al consorzio astigiano. E ai 4 e rotti milioni che vale il contratto di collaborazione.
È una storia, questa, assai poco edificante. Perché mostra tutta la fragilità del rapporto fra giornalismo e settore di riferimento. Perché tratteggia come un graffio fulminante  e deprimente l’idea che in questi, diciamo 10/15, anni la filiera del vino si è fatta del giornalismo e dei giornalisti. Anni nei quali si è affermata la convinzione che comunicazione e informazione siano la stessa cosa. Chiaramente a vantaggio della prima. Si è consolidato il dogma osceno che il giornalismo di settore sia un universo abitato, e in parte purtroppo è vero, da nani e ballerine. Da marchettari aziendali da geishe di regime. Un genere umano e professionale magistralmente riassunto nella figura dei cosiddetti influencer, odalische disposte a vendersi la penna e la faccia in cambio di una scatola di vino o di un biglietto  per l’ingresso gratuito a Vinitaly o all’ultima sagra di paese. Come in un’inversione irreparabile del processo darwiniano.  È l’idea paracula, e sciagurata, di un giornalismo che deve comunicare, non informare; e che trae legittimità solo dalla sua intrinseca funzionalità agli interessi aziendali e consortili. Autorizzato a prendere la penna in mano e ad aprire la bocca esclusivamente sotto dettatura, dei consorzi, dei boiardi e dei tycoon del settore.