[ illustrazione a cura di  Domenico La Cava© ]

In questo tempo di pandemia globale, nel settore del vino si possono rilevare notevoli similitudini fra gli effetti del CoVid-19 con quanto successe nel 1986 con lo scandalo del metanolo. Ci sentiamo terremotati oggi non meno dello sconquasso che allora subì il settore a seguito dei 23 morti e centinaia di lesionati permanenti (soprattutto cecità). Furono quelle, vittime di un avvelenamento causato dall’aggiunta illegale del venefico alcol metilico (per aumentare il grado alcolico), diventato “conveniente” per gli italici sofisticatori dopo essere stato improvvidamente detassato dalle pesanti imposte sugli alcoli. A beneficio di colori e vernici base alcol della Montedison.
Gli effetti sul mondo dei vini fu epocale, ancor più di quanto si prospetta oggi per il virus: dimezzati i consumi che rimasero tali anche nei tempi successivi, sparizione dei bottiglioni da 2 l e graduale passaggio ai 7/10 all’insegna del poco ma buono, estensione dei mercati oltreoceano, ecc. ma soprattutto un nuovo approccio e una nuova progettualità.
Ecco che qui siamo al punto dirimente fra i due fenomeni a confronto.
All’epoca dello scandalo del metanolo, il Trentino fu primo in Italia a reagire con una strategia vincente: all’inizio Cavit si era messa di traverso con un accordo esclusivo con l’Istituto di San Michele che avrebbe certificato l’assenza di metanolo nei suoi vini. Strada sbagliata sia perché discriminante rispetto agli altri produttori, sia perché indirettamente avrebbe continuato a ricordare lo scandalo presso i consumatori. Si impose infine la linea dell’Istituto Trentino del Vino (odierno Consorzio Vini) che propose una campagna pubbli-promozionale col motto “Trentino, l’unica regione d’Italia che fa rima con vino”. Nonostante le perplessità iniziali la campagna sostenuta dalla PAT e co-finanziata dalle Aziende funzionò talmente bene che il territorio si inserì presto nel ristretto novero delle migliori zone di produzione nazionali. A monte c’era un progetto che le aziende condivisero e attuarono per tre lustri.
Oggi, dopo 20 anni di sistematica demolizione del concetto territoriale per far posto alle esigenze industrial-cooperative degli oligopoli (no enfasi sulla DOC, sì alla varietà del momento e soprattutto al brand aziendale) la strada da seguire appare tremendamente più complicata. Perché:

1. Non c’è più dibattito fra le aziende, ma si segue il dettato del manager di turno.
2. Al manager (presidente, ad o dg che dir si voglia) interessa il fatturato.
3. Il territorio, ereditato dai padri per essere migliorato, è solo sfruttato e piegato alle esigenze industriali globalizzate.
4. Per rispondere alla critica di cui sopra si riempie la GDO con vini soprattutto DOC di prezzo medio-basso ottenendo il doppio effetto di limitare gli spazi ai competitor più piccoli e di spingerli su politiche di brand, essendo la DOC svalutata.
5. Il canale ho.re.ca. è il più penalizzato e quindi soffrono ancor più i vini di qualità e di nicchia che in qualche modo tengono alto il vessillo residuale del territorio.
6. Il Consorzio Vini del Trentino (appellativo geografico da mettere in dubbio) invece di essere tavolo su cui dibattere obiettivi, strategie e azioni da fare per uscirsene vincitori dalla crisi, si oppone perfino all’indicazione di ridurre le rese suggerita qualche settimana fa dai timidi Vignaioli, ma fatta propria addirittura dal Consorzio del Pinot grigio delle Venezie DOC dove i trentini sono in minoranza.
7. I Vignaioli, appunto. Rappresentano il 6% in quantità, ma hanno la prevalenza in immagine e notorietà residua del territorio. Che fanno? Si rendono conto che hanno una responsabilità che va oltre i numeri loro?
8. Il problema più grosso è rappresentato dagli amministratori delle Cantine coop. di primo grado che volenti o nolenti hanno abdicato al loro ruolo mettendosi tutti sotto il mantello di Cavit, succeda quello che succeda. Tutti assieme non possono essere crocifissi. E salvano le seggiole.
9. L’altro oligopolio, Mezzacorona, in attesa della definizione dell’affaire Feudo Arancio, continua a imperversare a tutti i livelli, imponendo direttamente o indirettamente la linea sommariamente evidenziata nei punti sopra esposti.

A farla completa, manca il 10.mo punto e molti altri se ne potrebbero aggiungere.
Ma una conclusione si può trarre: manca un dibattito sereno e costruttivo; manca l’azione-guida del Consorzio Vini (proseguire a testa bassa come in passato non è un’azione, è un’idiozia); mancano tutti quelli che nel settore hanno una qualche responsabilità (PAT, FEM, Sindacati, Associazioni varie). Come dire, oggi manca tutto.
Allora, chi farà la prima mossa? E quale potrebbe essere la prima mossa?
Azzardiamo.
Sul chi, potrebbero essere i Vignaioli (non hanno nulla da perdere, solo da guadagnare) e la prima cosa da fare sarebbe quella di dibattere fra loro un programma di medio-lungo periodo per il rilancio territoriale e presentarlo a chi di dovere, stampa compresa. E poi vedremo se la vietienologia trentina è veramente destinata a morire di Corona o Mezzacorona.