Ma come, la Produttori di Toblino non era il più prestigioso vignaiolo collettivo del Trentino? Non era il cavallo di razza della Valle dei Laghi? Non era la cantina che riduceva volontariamente le rese in campagna, fino a 90 quintali/ettaro? Non era la cantina del biologico diffuso? Non era la coop capace di gestire in proprio un’azienda agricola gioiello così efficiente da far invidia persino alla Real Casa? Lo era o non lo era tutto questo? E lo è ancora? O era tutta fuffa? O è tutta fuffa?

Le domande sorgono spontanee, quando si scopre, come è accaduto in questi giorni (leggi qui e qui), che il campione enologico abituato a collezionare Tre Bicchieri su Tre Bicchieri e tantissimo altro in giro per il mondo, si è incartato dentro una opaca questione di vino merce da 8,5 gradi alcolici destinato ad una IGT anabolizzata (legalmente, si intende) da alchimie concentrate.

Perché, dai 90 quintali ettaro di uva agli 8,5 gradi alcol, verosimilmente frutto della pratica degli esuberi (ma dove? In campagna o in cantina?) ne scorre del vino. E ne affiorano delle domande; domande legittime credo, nonostante il sempre più smarrito presidente della coop, Bruno Lutterotti, si ostini a considerare le domande dei giornalisti come intollerabili ingerenze negli interna corporis dell’azienda. E poi, se questo capita(va) a Toblino, cosa succede verosimilmente in altre cantine meno blasonate, meno attenzionate e più inclini allo sfuso?

Resta, per ora, la sensazione che a parte chi questa storia non la vuole proprio raccontare, i vertici della coop, anche chi la racconta (i due enologi licenziati) la stia raccontando solo a metà. E probabilmente non si tratta nemmeno della giusta metà.