Dopo Rossi, Ferrari è il cognome più diffuso d’Italia. Nessuna meraviglia quindi, se il più famoso costruttore in F1 e il miglior spumantista nazionale si chiamino allo stesso modo. Ad ambedue conviene sfruttare l’omonimia, ancorché con pesi e tornaconti assai diversi. Il tornaconto maggiore è ovviamente per lo spumantista di Trento, non fosse altro che per l’analisi costi-benefici. Quindi chapeau per il successo mediatico incassato già col solo annuncio della sponsorizzazione e che ripaga anticipatamente buona parte dell’investimento economico dell’azienda locale. Il francesismo chapeau è in onore dello Champagne che dopo tanti decenni si vede costretto ad abbandonare i fasti del podio di F1, mentre il riferimento alla sede dello spumantista trentino è più sfumato perché Trento non è ancora esattamente quello che Moet Chandon e Mumm hanno fin qui rappresentato per la Champagne e per la Francia. Ci vorrà tempo, ovviamente.

Intanto, le cronache giornalistiche parlano di Ferrari e Trentodoc, mentre più acutamente Matteo Lunelli nell’annunciare l’operazione parla di Ferrari Trento. Certo, per cominciare a distinguere la propria azienda dal costruttore di Maranello, ma questa naturale differenziazione fra Trentodoc e Trento riapre una questione che agli specialisti non può sfuggire.

Per capire, bisogna fare un passo indietro, a quando cioè Ferrari, già allora noto spumantista, dovette aggiungere la sua origine locale, mettendo “Trento” nella comunicazione all’indomani del primo scandalo vinicolo italiano (era il 1967, dopo il D.P.R. 12.2.1965, n. 162 sulla repressione delle frodi) che aveva coinvolto tale Bruno Ferrari di Osimo et altri, per la vendita di bottiglie fasulle di barbera, bardolino, rosso del Garda, lambrusco ecc. “Il buon vino Ferrari” insomma, travolto dallo scandalo rischiava di diventare deleterio per il blasone della famiglia Lunelli che fino ad allora Trento lo riportava solo nell’indirizzo postale. Trento, quindi, salvò Ferrari permettendo al marchio di raggiungere il prestigio che conosciamo, grazie alla capacità dei Lunelli e alle competenze di cui seppero attorniarsi.

La bella pagina del matrimonio d’interesse fra il marchio Ferrari e la sua terra d’origine finisce però sul nascere, perché gli step successivi – all’apparenza più concreti – a ben vedere sono stati via via più volti tanto al rafforzamento del solo brand, quanto al contenimento della possibile concorrenza locale. Basti pensare che all’epoca dello scandalo del Ferrari di Osimo gli spumantisti trentini si contavano su una mano, mentre oggi non ne bastano dieci. Una quantità di nuovi competitor domestici che andava guidata, disciplinata, instradata su un percorso di crescita sì, ma anche per scongiurare che qualcuno potesse nuocere al primogenitore.

A distanza di anni la lettura degli eventi, che hanno dato vita all’associazione spumante Trento metodo classico per giungere al primo D.P.R. esclusivo per uno champenoise italiano, può essere anche questa. Non era tanto l’Equipe 5 a preoccupare allora, ma Cavit e poi Rotari ne avevano capacità e avrebbero potuto scombinare le carte nella partita spumantistica. Ciò non avvenne nemmeno in seguito con il proliferare di decine di piccole Case, ancorché tutte supportate da eccellente qualità. Ad onore del vero, anche grazie all’azione stimolante del Consorzio specifico. Una duplice lettura, quindi: da un lato spumantisti orgogliosi di partecipare alla partita col campione indiscusso e dall’altro il prezzo da pagare per giocarla. Un prezzo che a sua volta ha facce diverse, alcune belle come l’impegno per la qualità massima possibile, altre meno belle e da nascondere con una maschera. Per stare in metafora, quella ad es. di ostentare che tutto va bene pur sapendo che il vigneto di Chardonnay è lungi dall’essere opportunamente delimitato ed è ancor più lontano dall’essere convenientemente remunerativo, come sarebbe se si passasse dalla DOC alla DOCG. Oppure sapendo che si potrebbe agilmente raddoppiare o triplicare la produzione, ma limitarsi ai 10 milioni di pezzi fra 60 Case spumantistiche, la metà dei quali del player di riferimento. Oppure ancora, ed è il top, rinunciare nella comunicazione al marchio d’origine Trento per assumere quello commerciale di Trentodoc che – sul filo della legalità – lo esclusivizza ai soli soci aderenti, svuotando la portata della denominazione pura che è un bene comune e quindi di tutto il territorio. E che la politica trentina abbia avvallato e finanziato cotanta scelta è perlomeno bizzarro, per usare un eufemismo.

Ma torniamo alla sponsorizzazione di Ferrari (Trento) per il podio della F1.

Cosa c’è da aspettarsi, come territorio, da questa operazione?

Che gli uomini di Ferrari specificheranno Trento tutte le volte che si prefiguri possibilità di confusione col motorista, specie se questi continuasse con la penuria di successi degli ultimi anni. Se poi al posto di Trento scappasse un Trentodoc come da vulgata giornalistica, la ricaduta sul territorio sarebbe ancor più diluita, al limite del percettibile.

In conclusione, fatti i complimenti alla Real Casa per il colpo messo a segno, mettiamoci comodi per mettere a fuoco gli effettivi tornaconti per i competitor e le adombrate ricadute sul territorio.

Può darsi che questa analisi sia sballata perché siamo in un Paese sballato di suo, ma sperare che alzando un Jeroboam di Ferrari sul podio della F1 si inducano i consumatori a correre all’acquisto di un Trentodoc qualsiasi sarebbe uno sballo ancor più strano.