Stavo leggendo online un vecchio libro su una ancor più vecchia diatriba riguardante la fatale calata dei Cimbri dalle Alpi nel 101 a.C. Insomma, una cosa di 20 secoli fa che però ha coinvolto il nostro territorio lasciando tracce evidenti nel nostro quotidiano.
Sul più bello mi chiama il Tano per dirmi che il libro in memoria di Nereo Cavazzani è già acquistabile su Amazon e che presto ci sarà una presentazione, magari con un dibattito fra chi lo avrà letto e gli interessati alle future sorti della vitienologia trentina. Anche questa, una storia datata che sappiamo a memoria per cui taglio corto dicendogli che sarei uscito a cena, avendo prenotato ai Due Mori di Via San Marco a Trento.

Ci accomodiamo nell’interrato dell’antica trattoria a fianco di una scaffalatura zeppa di buone bottiglie che fa da separé con altri tavoli. Fra le tante coricate, ogni tanto ce ne é qualcuna in piedi, in bella mostra e mi capita – guarda caso – di sfiorare un’elegante borgognotta dove risalta un CIMBRO in chiaro seguito da un ROSSO scritto in rosso su sfondo nero. Meglio così mi dico, il colore è quasi sempre pleonastico, e ancor più mi godo a non vedere citate varietà d’uva nemmeno sulla retro. Assaggiamola ‘sta bottiglia di Villa Corniole, con ciò condizionando la scelta gastronomica.
Il posto è carino, da trattoria elegante, la padrona è cordiale (non scontato a Trento), il personale istruito a dovere e i tavoli tutti occupati da giovani studenti e persone di mezza età. Tutti bevono vino rosso di qualità all’infuori di un tavolo in fondo, con sei uomini che han da discutere con sola acqua, di sabato sera, boh… .

Il Cimbro mi piace subito, piace anche ai miei commensali, l’assaggia anche un’amica astemia non enofoba, cosicché alla fine ce la siamo scolata in due. Come sempre, mi pare questo il metro più giusto per giudicare un vino: se un bicchiere tira l’altro è ok, se no c’è un problema biforcuto, per noi normali. O è troppo impegnativo e condiziona il desco o è deludente e non vale il prezzo. Il Cimbro 2018 è a 20 euro, prezzo giusto, anzi buono.
Tre cose: si percepisce la tipicità delle uve locali (Teroldego e Lagrein, va da s’è), ben amalgamato, morbido, pieno. Un bel bere. Per contro, un sentore di barrique un pelo accentuato, è il prezzo da pagare per chi gli autoctoni non li conosce. La terza cosa è quella chi mi porta a scriverne, ossia Cimbro, il nome del vino. Evidentemente è un omaggio alla Val di Cembra del produttore cembrano, ancorché le uve siano tipiche della rotaliana. Comunque, una risposta concreta ad Andreas März, acuto giornalista che una decina d’anni fa pubblicò sulla sua prestigiosa rivista svizzera Merum un ampio reportage sul territorio cembrano, titolato la Valle dei senza nome. Era stato un grido di dolore dopo aver visto quello spettacolo della natura plasmato a terrazze da secolari sforzi del viticoltore, con l’auspicio che quelle fatiche venissero ripagate nell’unico modo possibile: quello di differenziarsi dalla concorrenza di viticolture meno eroiche puntando sulla sola ed irripetibile origine, Cembra o Cimbro, appunto. Non lo si è fatto, se non in questo caso che non può giustificare il tutto.

Credo che al di là della contingenza – uve e vini che perlopiù confluiscono in oligopoli poco o punto votati alla valorizzazione delle particolarità – il problema sia a monte e sia culturale. Infatti, nemmeno le istituzioni sanno e nessuna si dimostra almeno consapevole della vera origine dei nomi Cembra o Cimbro, quindi figli di N.N., senza nome, appunto. Nel sito dell’APT trovi che deriva dal Pino cembro che un tempo, forse, ammantava la valle. Altrove, altre ipotesi dicono di genti bavare che dopo la metà del X sec. e seg. emigrarono sugli odierni Altopiani Cimbri … nulla a che vedere con la Valle e nemmeno oltre, nel pinetano, dove di quelli rimane perlomeno il residuo culturale dei Mocheni.

E allora? Allora bisognerebbe andare più indietro di un altro millennio, (DCXLIX – DCLIII, anni di Roma) ossia al 105-101 a.C. quando – secondo Plutarco, Livio, Appiano, Granio Liciniano, Frontino, Floro, Valerio Massimo fino a G. Cesare, ma non solo – i veri Cimbri (o Kimbri) dello Jutland passarono le Alpi attestandosi per qualche tempo alle viste di una fortezza romana sulla Cervara (Buonconsiglio) con testa di ponte in legno sulla Verruca (Doss Trento) a scavalco dei tre bracci in cui là si divideva l’Adige (Trent in celto è il luogo dei tre fiumi). Verosimilmente, 200 mila Cimbri se ne stavano accampati ai Vodi, confluenza dell’Avisio con l’Adige. Facile che razziassero la bassa Valle popolata da Reti, com’è facile che lasciassero in ricordo (?) il loro nome. Altro che Pini … cembri o bavaresi d’Algovia, alcuni carpentieri/Zimmerer traslati malamente in Cimbri dopo l’XI sec. creando la confusione sull’origine del nome di cui si soffre ancor oggi.

Solo per ricordare come è andata a finire e come era loro costume, in una primavera che precedette il 105 a.C. i Cimbri si mossero dai Vodi per dirigersi a sud verso la più vasta padania, in cerca di un luogo dove stare. Dopo aver spinto in acqua zattere cariche di pietre che ebbero facile ragione del ponte dei romani e misero in fuga cavalleria e soldati comandati dal proconsole Quinto Lutazio Catulo spedito qui dal Senato a contenere quell’orda. Si attendeva che dalla Provenza arrivasse Gaio Mario fresco vincitore dei Teutoni alle Aquae Sextiae, perchè a Roma l’argomento quotidiano era il “terror cimbricus”.
Il 30 luglio del 105 a.C. ai Campi Raudii cominciò la battaglia finale che avrebbe chiuso le Guerre Cimbriche (iniziate nel 113 a.C.) fra l’esercito della Repubblica romana forte di 52 mila soldati e i 200 mila Cimbri (140 mila morti e 60 mila prigionieri). La vittoria della razionalità militare di Mario contro l’irruenza scomposta degli avversari. Plutarco scrive che i Campi Raudii fossero presso Vercellum, ma vercellum era detto anche il luogo dello sfruttamento dei minerali ferrosi che si trovano facilmente alla confluenza dei fiumi… da qui una polemica mai sopita sull’esatto luogo della battaglia.

Fatto sta che di Cimbri oggi si parla solo con riferimento agli Altipiani trentini e vicentini e di una lingua alto tedesca (quella d’Algovia di allora) insegnata ai bimbi di Luserna. Che è altro, rispetto ai Cimbri veri.
I Cimbri veri sono ormai spariti dai nostri monti, anche geneticamente, ma restano molti posti sull’Altopiano di Asiago e soprattutto a Gallio, dove la toponomastica non mente: corsi d’acqua, monti, valli, luoghi particolari recano nomi di divinità norrene, d’area scandinava cioè, che mai e poi mai avrebbero potuto essere tramandate da coloni cristiani. Gli unici che avrebbero potuto tanto, sono gli scampati alla battaglia dei Campi Raudii, fuggiti allo sterminio, riparati sui vicini monti lontano dai Romani, su fino ad Asiago, poi Gallio e fin dentro alla piana di Marcesina. Da lì era impossibile proseguire: forre a precipizio di 2000 m, dal Pizzo di Levico alle porte di Bassano lungo tutta la Valsugana, era troppo anche per disperati in cerca di un posto tranquillo per vivere come erano i Cimbri.

Ci resta la Val di Cembra che ignora la sua origine, ma abbiamo un Cimbro rosso di Villa Corniole che non solo consola, ma inorgoglisce pure.