Non ne parla nessuno, ed è strano. Sono arrivato con il fiato corto al Vinitaly (metaforicamente, perché in stazione sono arrivato con buon anticipo) e cerco notizie o indicazioni su Internet.
Gli anni scorsi, negli anni da 5 a 1 ante Covid, in cui avevo cominciato a interessarmi al vino con un piglio un po’ meno da dilettante, fiorivano guide, vademecum, percorsi, accompagnamenti al Vinitaly: ogni blog specializzato diceva la sua. In viaggio consulto il cellulare, ma trovo poco e nulla; a Brescia ho già finito.
Sicché farò un Vinitaly con un paio di punti fermi, e che ci metta lo zampino il caso. Come all’inizio del percorso, in cui finisco in mezzo al Nord Piemonte, che è un po’ la mia seconda casa: in questo caso anche concretamente, non solo dal punto di vista affettivo.
Mi ritrovo a chiacchierare con Pietro Cassina, che fa dei vini splendidi, come il Ciuet, un Coste della Sesia piacevolissimo, strutturato e complesso ma bevibile, non ampolloso. Ma veramente, bevendo uno qualsiasi dei suoi vini non si sbaglia. Organizzerò qualche degustazione, se il Cielo mi è propizio, con gli ospiti del mio Airbnb.
Inciampo anche nel bellissimo rosato di Pietraforata, che non a caso è tra i vincitori dell’International Rosé Championship. Pesca, albicocca, freschezza, in un rosato di Nebbiolo color buccia di cipolla.
Primo punto fermo, Astoria. C’è la presentazione del libro su Néreo Cavazzani con Angelo Rossi, che lo ha curato insieme a Tiziano Bianchi.
È un’opera corale, di diciotto autori compreso il sottoscritto, dedicata a un maestro visionario e geniale, un enologo che ha rivoluzionato il modo di fare i vini bianchi con imbottigliatura sterile a freddo. Sembra una quisquilia tecnica, ma se oggi beviamo bianchi fruttati e freschi invece di “camomille” (così diceva) ossidate, lo dobbiamo a lui.
Poi, ha inventato il metodo Cavazzani. Uno Charmat lunghissimo, almeno un anno in autoclave; che, secondo me, Cavazzani considerava come se fosse una mega-super-magnum. E si sa che nelle magnum (o Jeroboam, o Matusalem, e chi più ne ha più ne metta) il vino affina meglio.
Peccato che il suo Trentino alla fine non lo abbia voluto, che abbia preferito il vino industriale, magari foresto, come racconta Alberto Folgheraiter nel suo godibilissimo pezzo incluso nel libro.
Cavazzani il vino foresto non lo voleva vedere proprio: ha preferito diventare foresto lui, andandosene in Veneto. Questa visione, questo rispetto per il vino senza compromessi e l’intransigenza del genio, si intravedono tra le righe nelle parole dell’enologo Roberto Sandrin e di chi come lui, in Astoria, ha vissuto per anni con Cavazzani e ne ha assorbito gli insegnamenti e i principi.
Il suo metodo sopravvive nel Kàlibro, l’unico spumante a potersi fregiare della dizione “metodo Cavazzani” in etichetta, uno spumante fresco e fine, con l’eleganza e i profumi che rimandano al metodo classico e la bevibilità di uno Charmat, un vino gastronomico a tutto pasto.
Ne approfitto per assaggiare qualche altro vino. Casa Vittorino è un Valdobbiadene DOCG profumatissimo, elegante, con sentori tipici di pera e pesca bianca e un grande equilibrio; se avete litigato con la famiglia dei prosecchi (e, troppo spesso, con buona ragione) è l’occasione per fare pace.
Poi, con Angelo Rossi, andiamo alla caccia del secondo punto fermo, Mario Pojer: solo che tienilo fermo tu, se sei capace. Dal suo stand nella zona Trentino ci dicono che è agli stand della FIVI; arrivati al suo stand della FIVI, è già fuggito per tornare in Trentino.
Ci resta solo da bere uno Zero Infinito, che diventa sempre più piacevole anno dopo anno. Agrumato e fresco, il lievito in sospensione non è più ingombrante come nella primissima versione. Davvero godibile.
Intanto adocchio la lunga chioma di Silvano Clementi, di Villa Persani. Aveva portato una delle sue prime produzioni di PIWI a Milano, in un evento organizzato da noi di SkyWine (territoriocheresiste era ancora di là da venire) insieme a Fisar Milano.
I vini all’epoca avevano ancora qualche spigolosità, qualcosa da affinare, qualche disarmonia. Ha fatto passi da gigante, Silvano, da allora.
Il Pinot Grigio Performance, oltre ad essere uno spettacolo, è uno sberleffo a certe concezioni di Pinot Grigio insipido e piatto. La Schiava Dorothy arriva da vecchie vigne, parte degli anni ’60, parte degli anni ’30. Bevibilissima, fresca e fruttata. L’Aromatta ha profumi di frutta esotica, aromi, salvia.
Insomma, tutti vini eccezionali, davvero.
Personalmente l’unico sul quale ho qualche riserva è il Raetica, Nosiola, con qualche asperità al naso e in bocca. Roba da ninja dei vini naturali, cosa che io non sono affatto. Ma è la prima vinificazione, basta che faccia metà della strada che hanno fanno gli altri, e allora …
Sempre tra le note positive, Silvano rivendica le sue scelte sui prezzi. “Se faccio pochi trattamenti, soprattutto sui PIWI, se non aggiungo lieviti, il vino mi costa meno. Perché lo devo fare pagare di più?”. Stiamo parlando di vini davvero notevoli, tra i 10 e i 18 euro online.
Mentre degustiamo, Angelo Rossi mi ringrazia sottovoce per averlo portato ad assaggiare questi vini. Gli rispondo che questo è il Trentino che mi piacerebbe vedere, quello dei Clementi, ma anche dei Pojer, e prima ancora dei Cavazzani. Di gente che vinifica con passione, cerca nuove strade, inventa nuove tecniche, sperimenta nuove idee, rispetta il territorio, e anche il consumatore.
Annuisce, e lo sguardo si perde lontano, in un Trentino che non c’è.