Mentre in queste ore a Ravina si stanno prendendo decisioni che potrebbero rivoluzionare i rapporti di potere all’interno della vitivinicoltura cooperativa e in attesa di potervi raccontare cosa sta accadendo ai piani alti di Cavit, mi vengono in mente alcuni pensieri su un’altra cosa. Un’altra cosa fino ad un certo punto.
Durante l’ultimo fine settimana fra la Valle di Non e il Primiero sono andati in scena i primi due appuntamenti di Latte in Festa, ad agosto, fra il 19 e il 21, si replicherà in Val di Sole e in Val di Fassa. Leggo sul sito di Trentino Marketing che grazie a questi eventi “tutti potranno conoscere da vicino cosa si nasconde dietro la produzione del latte e di tutti i suoi derivati. Quattro eventi in Trentino ti porteranno a scoprire la filiera del latte, in malghe, pascoli e laboratori caseari”.
L’assessore all’Agricoltura Dallapiccola a fine inverno, mentre saliva alle stelle il malcontento degli zootecnici fuori dal sistema cooperativo, aveva promesso, oltre ad una serie di interventi concreti, anche azioni promozionali appositamente pensate per valorizzare il latte trentino e i suoi derivati. Dallapiccola ha mantenuto la promessa. Qualche intervento concreto è arrivato (il milione di euro in più di sovvenzioni conquistato l’altro giorno a Roma), ora sono arrivate anche le attività promozionali.
Tutto bene, naturalmente.

Però, al di là della festa, al di là dei selfie in posa da mungitura (a cui con la consueta e simpatica disinvoltura si è prestato anche l’assessore), e al di là delle compensative aggiuntive, sono convinto che i problemi, tutti, restino intatti. Per il latte come per il vino.

Come per il vino, infatti, il latte trentino sconta i limiti devastanti di una scelta strategica di fondo. E’ la scelta dell’industrializzazione della produzione e della trasformazione. Non bastano i marchi di qualità, inventati e imposti a tavolino, non bastano le certificazioni di carta, non bastano le feste più o meno colorate, per creare reputazione alla filiera agroalimentare. Che, invece, ha bisogno soprattutto di contenuti. C’è un ingrediente, che in Trentino manca quasi sempre, a differenza, per esempio di quello che accade in Alto Adige, è il territorio. Tranne qualche eccezione (Trentingrana e circuito dei piccoli caseifici sociali, da Sabbionara a Predazzo, da Coredo a Mezzana), questi elementi, anche nella filiera del latte, sono molto attenuati; centrifugati e disarticolati dentro meccanismi di produzione e di trasformazione, prevalentemente cooperativa ma non solo, segnati dalla spersonalizzazione industriale, a detrimento dell’identità territoriale. Non serve, qui, tirare in ballo le vecchie, e per fortuna archiviate, storie di Fiavè e di Sav. Ma il nocciolo sta tutto in quel modello: nell’inadeguatezza alla montagna della zootecnia intensiva e del sistema trasformativo immaginato su dimensioni, e gerarchia di valori, industriali. Una scelta che ha portato, per esempio, al paradosso degli yogurt che nel nome vagheggiano un’ammiccante e rassicurante identità locale, ma che sono prodotti, in Trentino certo, da una grande holding industriale bavarese. E’ anche attraverso questi passaggi, su cui la politica ha sempre detto poco e nulla, che si smarrisce il senso di appartenenza territoriale della filiera agroalimentare della nostra provincia.
Quindi, va bene tutto. Vanno bene le compensative aggiuntive, vanno bene i selfie nelle stalle, vanno bene le kermesse ad usum dei turisti. Ma prima di tutto questo, molto prima, c’è bisogno di recuperare un legame solido con il territorio. E non solo a parole. E questo è un compito della politica. Se la politica ha voglia, ancora, di dire e di rappresentare qualcosa.

Nella foto, gentilmente concessa da Stefania Longhi, un momento di LATTE IN FESTA