Qualche volta avrai pensato di fare un corso per sommelier e avrai trovato mille motivi per non farlo. Il tempo, la stanchezza, la quota di iscrizione al corso, la scomodità della sede. Forse anche un po’ di inquietudine, il pensiero che alla fine avresti potuto rivelarti inadeguato, incapace di essere ammesso alla casta sacerdotale dei “veri esperti di vino”: e sarebbe stato troppo per il tuo amor proprio. E poi: ma ne vale davvero la pena?
Adesso però mi sono iscritto io, e ho deciso di raccontare la mia esperienza. Così anche tu, che da tanto tempo accarezzi l’idea, o quanto meno sei curioso di sapere che cosa ci sia dietro le quinte, che esperienza sia quella di un corso del genere, potrai averne un’idea. Certo, di seconda mano, ma sincera, e per questo più affidabile di quello che possono dirti le brochure patinate o i siti Internet delle associazioni.
Non starò a riscrivere quello che già si trova all’interno del materiale didattico del corso. Sarebbe uno spreco di energie inutili e sono per il risparmio energetico, io: soprattutto il mio. Quindi, descriverò le cose che mi hanno colpito, quelle che non sapevo (e sono tante) e quelle che sfatano qualche mito.
Si parte alle 20:30 di un mercoledì sera di fine ottobre; arrivo dritto dal lavoro e sono il primo dei partecipanti al corso. Scorrendo la lista dei colleghi noto che siamo circa metà uomini e metà donne. Mi dicono che di norma sono leggermente di più le donne ai corsi: “gli uomini bevono, le donne studiano”. Ma è una donna a dirlo.
È anche una donna, Laura Sandoli, a tenere la prima lezione del corso. È stata vincitrice del titolo di “miglior sommelier d’Italia” nel 2009 e ci spiega i primi rudimenti della professione di sommelier.
Si parte dalla storia, dalla storia di chi si è occupato di vino a partire dagli antichi egizi, per poi proseguire con gli antichi romani, approdare a Sante Lancerio (che nella prima metà del Cinquecento riordina l’universo dei vini per conto di Papa Paolo III Farnese) e poi arrivare fino ai giorni nostri. Ovvio risalto viene dato alla fondazione della FISAR nel 1972.
Le funzioni del sommelier sono quelle raccolte via via nel tempo, nel corso della Storia: conoscere il vino e valutarne la bontà, in primis. Nell’antichità, in particolare, il vino era molto diverso da quello che conosciamo oggi, un vino duro, spesso con difetti, inadatto a essere bevuto da solo, addolcito e aromatizzato con resine e miele e usato per disinfettare e dare un sapore migliore all’acqua (che a sua volta non doveva essere generalmente un granché). Altri compiti: gestire la cantina; catalogare il vino in base a colore, gusto e profumo; assicurare il giusto abbinamento tra vino e cibi; infine, servire il vino.
Il sommelier ha qualche cosa a che fare con il somaro, e questo dovrebbe essere sufficiente a garantirci una buona dose di umiltà. Infatti il termine deriva dal provenzale antico e stava ad indicare colui che trasportava barili di vino sul dorso di bestie da soma.
Tra le prime cose di cui si deve occupare un sommelier c’è la cantina. La cantina ideale ha scaffalature in legno, per assorbire le vibrazioni, una temperatura costante intorno ai 12-14° centigradi, un’umidità del 70% per non fare seccare il sughero dei tappi e una buona ventilazione per evitare muffe e odori. È vietato tenere insieme al vino cose che possono trasmettere odori: quindi niente salami né formaggi (o peggio, prodotti chimici e carburanti).
Le bottiglie vanno tenute coricate. Questo pone fine a lunghe disquisizioni riguardanti il modo migliore di conservarle, se coricate, in piedi, a 45°, a 30°, o in altre posizioni esoteriche. Il motivo è evitare il contatto dell’aria contenuta nella bottiglia con la parte inferiore del tappo, nella speranza di evitare il famoso “sentore di tappo”, che dipende dalla germinazione delle spore dei funghi chiodini contenute all’interno del sughero.
La disposizione dei vini deve favorire il raggiungimento della temperatura ideale. Siccome il calore va in alto, in basso si tengono gli spumanti, poi man mano andando verso l’alto i bianchi giovani, i bianchi invecchiati, i rosati, i rossi giovani, i rossi strutturati, infine i rossi invecchiati.

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Gli strumenti del sommelier

Passiamo agli accessori. Il taste-vin è il simbolo dei sommelier di tutto il mondo, ma non si usa ormai più per analizzare e degustare il vino. Si indossa solo durante il servizio, mai in altre occasioni.
Scopro che le cose cambiano nome. Il tovagliolo diventa “frangino”; il tavolino diventa guéridon; la spirale del cavatappi si chiama “verme”; le bollicine (ma questo lo sapevamo) si chiamano perlage; il rigonfio del vetro all’estremità del collo della bottiglia vicino al tappo si chiama “cercine”.
La sommelier ci mostra i vari bicchieri e l’abbinamento ai vini; le varie fogge delle bottiglie utilizzate per conservare il vino; infine, passa a mostrarci come servire il vino.
È una cerimonia rituale, quasi una danza, quella che il sommelier compie per stappare una bottiglia. Ricorda un po’ la danza del torero con il toro, per creare quella che secondo gli appassionati è un’opera d’arte, vale a dire la corrida. Anche qui ha la peggio il toro, cioè la bottiglia, ma qui non c’è sangue, né una morte inutile.
Bisogna usare un cavatappi appropriato, quelli con un coltellino e una doppia leva all’estremità. Altri tipi di cavatappi non sono ammessi.
Si mostra l’etichetta al cliente, dalla sua sinistra. Poi ci si sposta sul guéridon. Tutti gli attrezzi del sommelier saranno sul guéridon, mai sul tavolo del cliente. Poi, bisogna incidere con il coltellino la capsula appena sotto il cercine, poi levarla, possibilmente intatta, e posarla su un piattino. Si pulisce la sommità della bottiglia con un frangino. Poi, si estrae il tappo quasi completamente con il cavatappi, salvo gli ultimi millimetri che vengono estratti tirando a mano il tappo oramai quasi liberato dalla sua sede. Si annusa il tappo per accertarsi che non vi siano odori sgradevoli e si deposita il tappo su un secondo piattino, toccandolo sempre con un frangino e mai con le dita.
Poi si misura la temperatura del vino e lo si assaggia per sincerarsi che non vi siano odori e sapori sgradevoli. La temperatura ideale segue la scala già detta prima, parte dai 6 °C degli spumanti e arriva ai 18 °C dei grandi rossi invecchiati. I rosati stanno esattamente al centro, a 12 °C.
Ma per quale motivo c’è una temperatura per ogni vino? Oltre che per il sadismo che contraddistingue gli amanti della precisione a tutti i costi, ci sono delle ragioni ben precise. La bassa temperatura smorza gli aromi, accentua la tannicità, riduce la dolcezza. Un grande rosso invecchiato troppo freddo sarebbe anche troppo tannico.
Per gli spumanti, imperativo evitare il botto. Questo è concesso solo in alcune occasioni: compleanni, Capodanno, “Viva la sposa!”. Negli altri casi, quando si apre la bottiglia “si deve sentire solo un sospiro”.
Infine, si serve il vino. Per la precedenza nel servizio, ci sono complicate regole che vi risparmio. Del resto, molte sono regolamentate dalla legge sul cerimoniale (G.Uff. 174 del 26/7/2006): ed è bello sapere che, in Parlamento, c’è chi si preoccupa per noi di queste cose. L’unica cosa che mi vien da notare è che, nel caso non vi siano autorità, si parte sempre dalla signora più autorevole, cioè la più anziana. Più di una signora si è ritenuta offesa per essere stata servita per prima.
Siamo alla fine della lezione. Per questa prima lezione, nessun assaggio, nessuna degustazione. In compenso, qualche salatino e un po’ di prosecco.
Scambio quattro chiacchiere con Carlo Boggero, il tesoriere della FISAR. Gli chiedo se ci sono molti sommelier che esercitano la professione in Italia. Mi dice: “Pochissimi” e aggiunge: “È un peccato. Manca la cultura anche tra i professionisti, alle volte nei ristoranti vengono a chiederti che cosa vuoi bere prima ancora di sapere se mangerai carne o pesce. Basterebbe che un proprietario di ristorante mandasse qualcuno, magari uno dei suoi camerieri più svegli, a un corso del genere e potrebbe offrire un servizio migliore al cliente, che spesso è disorientato davanti alle carte dei vini e sceglie in base al prezzo, o va a casaccio”.
Con queste parole, addento una pizzetta e sollevo il bicchiere di prosecco. Seguirà brindisi.