pilati

SONETTO A TRENTO

Tra le fauci di monti aspri e scoscesi
in una valle tetra e paludosa
Giace Trento maligna ed invidiosa
Feccia di longobardi e calabresi,

ove van sempre i malfattori illesi
e la virtù farsi veder non osa
se non mesta, tremante e paurosa
e i vizi sono al sommo grado accesi.

Zotica è la favella, il pensier contorto,
trionfa sol malizia con l’inganno,
l’usura trova di sicuro porto.

L’ozio, l’ipocrisia recan gran danno,
e chi ha ragion riporta sempre torto,
vi regna insomma ogni più rio malanno.

Carlo Antonio Pilati

Si dice che la Storia sia maestra di vita, così quando capita di non capire o di non sapersi orientare, ricorrere alla maestra può essere buona cosa. Poiché di questi tempi le occasioni non mancano, pensando al TRENTO – intendo il metodo classico Trento, ossia la DOC Trento malamente storpiata in Trentodoc che sembra la stessa cosa, ma che in realtà è cosa assai diversa – mi è venuto alla mente il sonetto di Carlo Antonio Pilati dedicato appunto a Trento.
Costui, i trentini dovrebbero conoscerlo di già, fu uno dei personaggi più illustri della seconda metà del sec. XVIII. Nato da magnanimi lombi a Tassullo in Val di Non nel 1733, passò alla storia, obtorto collo, per essere stato in relazione con i più insigni illuministi del suo tempo professando idee non esattamente gradite a chi allora deteneva il potere.

A distanza di oltre due secoli dalla sua morte (1802) il suo pensiero conserva una sorprendente attualità ed è “illuminante” per come descrive Trento e i trentini. Una penna ferita, la sua, per le angherie cui fu sottoposto, ma proprio per questo degna di attenzione in un’epoca di valori vacui, di autocelebrazioni e di difesa ad oltranza dello status quo con arrogante rifiuto di un qualsiasi confronto. Ecco, rilanciare il glorioso nome di Trento per il più prestigioso dei suoi prodotti quando anche la piccola denominazione prosecchista Asolo ha superato i 5 milioni di bottiglie, non dovrebbe essere difficile, è che proprio non si vuole. Come non si volle dedicare  a Pilati, in Trento, niente se non la via più infame della città: quella del carcere. Proprio a lui che “volle gli enti dotati di ragione render d’arbitrio e libertà forniti onde fosse l’oprar di scelta effetto e non legge di forza e di destino”.