Sistema di Qualità Nazionale di Produzione Integrata, sintetizzato da un acronimo impronunciabile (SQNPI) e visualizzato da marchio che raffigura una specie di Ape Maia. Ma cos’è questa roba qui? Non sono sicuro di aver capito bene, perciò provo a spiegarlo a me stesso. E a farmi qualche domanda. Poi se qualcuno mi vuole venire in aiuto, tanto meglio.
Intanto diciamo che si tratta di un sistema di certificazione complesso dedicato all’agricoltura convenzionale, quindi anche alla vitivinicoltura, e che l’adesione è su base volontaria da parte di aziende, di consorzi, cooperative e OP. Si basa su un sistema combinato di autocontrolli e di controlli eseguiti da un’agenzia terza, a campione, sia in campo, sia digitalmente sul Quaderno di Campagna. Ottenuta la certificazione, sulla bottiglia di vino – o su altro, ma a noi interessa il vino – potrà essere disegnata una Ape Maia.
Il Trentino, naturalmente, come è nel suo stile da primo della classe ha aderito subito a questo nuovo sistema di certificazione e alla fine di maggio, Consorzio Vini del Trentino ha comunicato procedure e gabole varie alle aziende agricole. Insomma il topolino, finalmente, è stato partorito: l’annuncio che la nostra vitivinicoltura avrebbe spiccato il volo definitivo verso l’orizzonte della sostenibilità era stato dato un anno fa dal presidente di CVT Alessandro Bertagnolli. Quella promessa a quanto pare è stata mantenuta. La promessa della certificazione non quella del volo.
Ma cosa certifica, in fin dei conti, l’Ape Maia? Garantisce attraverso un sistema incrociato di controlli e autocontrolli, se ho capito bene, la coerenza fra il prodotto e il disciplinare regionale (nel nostro caso provinciale) di produzione integrata, laddove questo protocollo è la declinazione locale del PAN, il Piano nazionale per l’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari. Insomma, sempre se ho capito bene, l’Ape Maia non introduce niente di nuovo per la salute dell’agricoltore e del consumatore, perché non prescrive niente di nuovo, rispetto ai disciplinari già in essere,né sul piano della pratica agronomica e delle tecniche di trasformazione della materia prima in prodotto finito; ma piuttosto riconduce ad un solo logo nazionale e univoco le agricolture locali. Che ovviamente sono molto diverse fra di loro; perché il disciplinare di produzione integrata della Sicilia, per ragioni comprensibilissime, è differente da quello del Trentino e quello del Trentino è inevitabilmente, anche solo per ragioni climatiche, differente da quello della Puglia, pur dentro lo schema generale del PAN.
Ora, se si capisce al volo che questa reductio ad unum, è utile, anzi utilissima, in chiave di marketing per le produzioni industriali destinate alla GDO internazionale, che fanno perno sul concetto di made in italy trasferito in agricoltura. Si capisce meno, anzi io non la capisco del tutto, l’utilità di questa spogliazione dell’identità locale e territoriale per una produzione, quella del vino da uve trentine, che rappresenta una percentuale quasi insignificante (2%) della produzione nazionale. E la cui reputazione, diciamocelo chiaro una volta per tutte, è stata gravemente compromessa, negli ultimi vent’anni, dall’adesione ai meccanismi industrialisti imposti dal circuito distributivo della GDO internazionale.
Ma poi, così per curiosità, non ci hanno sempre raccontato che il nostro disciplinare di produzione integrata è il più rigoroso e il più avanzato del Paese, addirittura più severo del PAN? E allora perché tornare indietro e intrupparsi con gli ultimi della classe, affidandosi ad un simpatico marchietto che garantisce meno di quello che, almeno a parole, garantiscono le buone pratiche adottate in Trentino, e che allo stesso tempo ci spoglia di una caratterizzazione territoriale distintiva e ci mescola nel grande minestrone della produzione nazionale? No, così per curiosità, eh… .

Poi, se non ho capito bene, qualcuno mi venga in aiuto. E mi apra gli occhi, please.