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Sulla web site di Slow Wine di oggi, compare un articolo firmato da Fabio Giavedoni, che riprende un titolo che avevamo usato su TWB qualche mese fa: Maledetti Autoctoni… . Che dire? Grazie a SW e a Giavedoni, per aver portato alla ribalta nazionale un tema che noi, da questa estrema periferia dell’Impero, cerchiamo di approfondire, alla meglio, da qualche anno.

Nel panel finale delle recenti degustazioni di bianchi trentini effettuate da SW, racconta Giavedoni, hanno avuto la meglio Nosiola e Incrocio Manzoni (0,67% del vigneto trentino) – a proposito, perché l’incrocio viene attribuito alla categoria degli autoctoni? -, mentre le varietà internazionali, che rappresentano circa il 60% della produzione, racconta l’enoico giornalista, sono rimaste pressoché escluse dalle valutazioni dalle selezioni finali.

L’autore dell’articolo, a margine, osserva anche che i bianchi trentini “vengono in genere considerati quasi insignificanti per la critica vinicola italiana” e aggiunge in chiusura: “Alla fine ci viene un dubbio: saremo noi a dare troppa importanza a questi “maledetti” autoctoni, buonissimi ma assolutamente residuali all’interno della produzione totale, o è stato qualcun altro in passato a prendere decisioni che non vanno proprio nel senso della qualità?

La domanda è legittima. Non solo: sorge spontanea. Da almeno 20 anni a questa parte, il Trentino, in ogni sua piega, è stato pervaso dall’ideologia bianchista. Un’ideologia che oggi è ormai egemonica e che si affida a questo slogan: Il Trentino è una terra vocata ai vini bianchi. Alla sua diffusione hanno contribuito, comunicatori compiacenti, istituzioni scientifiche controllate dalla mano pubblica, tecnici al soldo delle grandi centrali industriali. Ma da dove nasce, questa ideologia funzionale alla produzione industriale? Nasce, sul finire degli anni Ottanta – la variazione del profilo varietale del vigneto trentino lo testimonia –, in concomitanza con l’ideazione, prima, e l’affermazione poi, di un progetto produttivo e commerciale proiettato sui mercati internazionali e governato dagli imbottigliatori cooperativi. E’ il grande business del Pinot Grigio che avanza e che crea mirabili illusioni. E non solo illusioni. Anche tanto reddito distribuito ai contadini conferitori. E’ il vino bianco commodity industriale, adatto agli scaffali della grande distribuzione internazionale l’orizzonte di questa visione enologica e ancora prima politica. In tutto questo non c’è niente di male. Intendiamoci. Ma di questa tipologia di vino stiamo parlando, non di un vino destinato alle degustazioni di Slow Wine e di tutti gli altri. La vocazione trentina alle uve a bacca bianca non è vocazione qualitativa ma semmai una vocazione industriale con un posizionamento adeguato a questo codice genetico. Le parole sono puttane. A volte. E qualche volta lo sono ancora di più.