Qualche giorno fa, al Politecnico di Torino si è conclusa la sessione invernale delle lauree magistrali per una trentina di giovani specializzati in ingegneria gestionale. Istituto severo e ragazzi in gamba futuri dirigenti del Paese. Sui tavoli dell’Aula Magna dove si illustravano le tesi, si rincorrevano due parole, due concetti che non hanno ancora trovato posto nel linguaggio quotidiano. Deglobalizzazione e ripristino. Perfino il correttore automatico della tastiera la sottolinea in rosso come fosse parola sbagliata, la prima, mentre la seconda appare digerita.
De globalizzazione, dunque. L’opposto della globalizzazione, la sua demolizione. E’ mai possibile? Pare di sì e forse anche utile e urgente. Gli studenti sostenevano le loro tesi con tanto di analisi aziendali. C’era la grande manifattura del Wisconsin che una dozzina d’anni fa traslocò in Cina parte del processo produttivo per i più favorevoli costi della mano d’opera o quella francese che per gli stessi motivi aveva investito in Romania. Ambedue sono tornate a completare tutto il ciclo produttivo nei rispettivi Paesi perché la somma delle negatività emerse nel corso degli anni ha prevalso sui vantaggi iniziali. Come dire: il costo del lavoro anche lì sta salendo, il made in China che accompagna i prodotti delle multinazionali non è da ostentare, l’immagine speculativa dell’azienda insensibile ai bisogni degli operai e del Paese la rende invisa, il nervosismo dell’imprenditore consapevole di non aver altri posti al mondo dove andare a speculare prelude al peggio. Allora è meglio rimettere i remi in barca, riorganizzare le idee e ripristinare l’esistente.
Capire che prima o poi dopo la globalizzazione ci sarà inevitabilmente una de globalizzazione è il primo passo evidenziato anche dalle tesi dei laureandi stimolati dai loro professori. Se pensiamo che una delle prime globalizzazioni si ebbe con l’impero romano (latino lingua universale, lex romana, esercito, moneta, usi e costumi, ecc.) è più facile capirsi e capire che siamo di fronte a qualcosa di ricorrente nei lunghi cicli della storia. Che resta maestra di vita anche quando si tende solo a guardare in avanti.
De globalizzazione e rispristino, quindi. Nadio Delai, qualche settimana fa a Ferrari Incontri lo ricordava con un esempio significativo ai membri dell’UCID di Trento: non è il caso di comprare un nuovo PC, diceva, fintanto che l’industria elettronica non presenterà uno schermo interattivo senza tastiera in grado di riconoscere la nostra voce e darci un testo in mano, come non è il caso di cambiare l’auto fino a che questa consumerà petrolio e via con quelle che parevano provocazioni.
Ripristino è come dire utilizzare ciò che di buono si è fin qui prodotto, utilizzandolo fino in fondo, correggendo gli errori e migliorando l’esistente, innovando, per le generazioni future. In tutti i campi dello scibile umano, dalla tutela della persona (di tutte le persone), all’economia, all’ ambiente. Mondo del vino compreso. Un discorso lungo che i tempi critici che viviamo ci consigliano di affrontare subito, con il pragmatismo degli ingegneri del Politecnico o con la filosofia dei liberi pensatori. Chi si ferma è perduto, anche stavolta.