Produttori di Trentodoc, affogate Ziliani! Scriveva così (con un colpo di genio), qualche tempo fa, una brillante giornalista di Abstract speaker silhouette with letters settore sul suo altrettanto brillante blog . Poi, non so bene come sia andata a finire. Di sicuro Ziliani non è affogato e i trentodoc, però, li ha assaggiati quasi tutti.  Ma oggi mi permetto di giocare su quel titolo – indovinatissimo, perché metteva a fuoco un problema serio di comunicazione del mondo trentodoc -, per dire: prima di affogare Ziliani nelle bottiglie di Trentodoc, affoghiamo (transitivo) i trentodocchisti nelle parole. Anzi in una sola parola: T R E N T O D O C. Mi viene da dire questa cosa, dopo aver letto, poco fa, l’intervista rilasciata giovedì (ma io ero fuori Trentino e quindi la commento oggi) dal neo eletto vice presidente dell’Istituto di Tutela, il giovane Carlo Moser. Ordunque, nel corso di tutta l’intervista – pubblicata su L’Adige e firmata da pgh, una delle poche penne che oggi in Trentino valga la pena di leggere senza dover far fatica ad arrivare in fondo –, il giovane vice di Zanoni, 27 anni e un curriculum già lungo tanto così: Bocconi, Procter & Gamble e tanto altro –, usa la parola “trentodoc” una sola volta. Mentre usa due volte quell’inascoltabile e illeggibile e inefficace sinonimo (?) che è “bollicine”. Etimologia discotecara da anni Ottanta, per riassumere tutto quanto assomigli più o meno vagamente ad una bevanda frizzante. Trentodoc compreso, almeno nella weltanschauung moseriana. Per fortuna a colmare il gergo pauperizzato di Carlo, c’è l’ottimo pgh che invece nel testo usa la parola “Trentodoc” per ben sei volte. Pgh, santo subito! Il giovane rampollo moseriano, poi, insiste sul concetto e lo argomenta pure: “I giovani le bollicine – di vario tipo – le amano e le consumano”. Di vario tipo appunto. Ma non basta: l’intervista si chiude due a uno per bollicine contro trentodoc, due a uno anche per metodo classico contro Trentodoc e ancora uno a uno per spumante versus trentodoc. Insomma una disfatta per il nostro marchio di riferimento. Almeno a guardare la grigia contabilità delle parole. Che saranno pure parole. Ma le parole sono importanti. E soprattutto “sunt consequentia rerum”, insegnava Giustiniano parlando di nomina (il nome trentodoc, appunto). Bene, la contabilità finisce qui. E non mi sembra incoraggiante, soprattutto perché viene da un giovane che in giro per il mondo si è occupato di marketing ad altissimo livello (“Da tanti anni credo nello spumante metodo classico, un prodotto forte che può farsi strada. L’esperienza in P&G – un vero tempio del marketing, loro lavorano per costruire brand che sono sul mercato da tantissimi anni – mi ha insegnato che un brand forte richiede un prodotto di qualità alla base, su cui innestare una comunicazione coerente e alimentata costantemente. Tra i metodi classici noi a Trento abbiamo il migliore, ma non tutte le aziende sono state capaci di comunicare questa superiorità al consumatore”). C’è solo da sperare che questa volta alle parole (bollicine) non seguano i fatti. Ma non finisce qui, invece, la lectio moseriana. L’ottimo pgh, infatti, poi riesce a fargliene dire un’altra di quelle memorabili, al giovane vice alle prime armi. In coda all’intervista sul trentodoc, gli chiede “Voi Moser su cosa puntate?” e Carlo, che da un paio d’anni ha il brevetto di volo e che forse stava ancora veleggiando oltre i picchi e le vette, risponde: “Sull’essere azienda agricola che produce vino da uve proprie, con una location unica, e la vicinanza alle Dolomiti che va sfruttata per distinguerci dagli altri metodi classici italiani”. Le Dolomiti? Ma come le Dolomiti? Oddio, ma allora vuoi vedere che anche questa volta, come quasi sempre, hanno avuta ragione quei due mattoidi creativi a cui il Trentino dovrebbe fare un monumento e che rispondono al nome di Mario Pojer e Fiorentino Sandri. Che dal brand/denominazione trentodoc se ne sono sempre tenuti lontani come dalla peste e i loro ottimi metodo classico, invece, li hanno affidati all‘Igt delle Dolomiti. Insomma, voglio dire, già nel mondo Trentodoc mi pare la confusione (a partire dalla web site) regni sovrana. Ora, non ci si metta anche Carlo a peggiorare la situazione, introducendo la variante/variabile delle bollicine dolomitiche.

Ultimo pensierino, davvero l’ultimo: ma i pezzi di pgh, lo ripeto, sono sempre così stimolanti che è difficile sottrarsi dal commentarli. In un inquadrato che compare accanto all’intervista, la nostra acuta penna a sfera (oddio, non me ne voglia pgh, se mi è uscito Venditti), ci informa anche che la prima idea dei giovani trentodocchisti figli d’arte (Clementina Balter, Carlo Moser, Chiara Simoni, Federico Simoni, Francesca Moser, Giacomo Malfer, Paolo Dorigati, Rudy Zeni e Stefano Malfer) sarebbe quella di organizzare una bella ”Festa di Primavera. Un evento rivolto in particolare ad un pubblico giovane e mondano in una location che può essere, ad esempio: Palazzo delle Albere, Buonconsiglio, ecc., che ha come principale obiettivo la diffusione del marchio e dei prodotti Trentodoc sia nel momento specifico che pre – e post – serata attraverso mezzi di comunicazione semplici ma molto efficaci quali il passaparola. Al consumatore finale deve arrivare il messaggio che Trentodoc significa bere qualità, è cool, rende speciale una serata”. Bella idea, finalmente. Anche se io la penso come il grande vecio del trentodoc Leonello Letrari: più che cool, io la festa di primavera la farei popolare. Popolarissima, affogherei tutti i giovani trentini, e non, di trentodoc ad un euro a bicchiere. Altro che Cool. Ma a parte la buona idea, scopro un’altra cosa d i s a r m a n t e, che mi fa cadere le braccia: i giovani leoni del trentodoc la buona idea se la sono già venduta. E sapete a chi? A Dellai e a Mellarini. A cui hanno scritto una letterina come si fa con babbo natale. Ma santo Iddio, ma cosa c’entrano Mellarini e il Governatore? Ma perché, cari ragazzi, quando vi viene una buona idea, correte subito a chiedere il permesso ai padri(ini) politici. Su, non siate timidi. E nemmeno genuflessi. E’ giunta l’ora, anzì vista l’età l’ora è anche passata, della ribellione ai padri (politici, non ai vostri che hanno ancora un sacco di cose da insegnarvi). Palazzo delle Albere, prendetevelo da soli. E occupatelo manu militari, anzi a suon di molotov-trentodocchiste. E poi prendetevi anche piazza Dante, il Buonconsiglio. E soprattutto palazzo Roccabruna. Fateli fuori i padri (politici), simbolicamente si intende. E fatelo, ve lo dico davvero con tutto l’affetto possibile, senza chiedere il permesso a nessuno. E senza lasciarvi mettere in testa il cappello dalla politica. Un errore che forse, qualche volta, in passato i vostri padri, invece, hanno commesso.