Buoni e cattivi maestri. Ho appena finito di leggere don lorenzo guettil’ultima pagina di “E per un uomo la terra”, il libro di Marcello Farina edito da Il Margine e dedicato al patriarca, della cooperazione e del Trentino autonomista, don Lorenzo Guetti. Bello. Un bell’affresco sul Tirolo di lingua italiana che si prepara ai grandi cambiamenti del Novecento. Nuovi documenti e nuove testimonianze attorno ad uno di quegli uomini che, come pochi, hanno contribuito a dare forma e sostanza al bisogno di riscatto dei nostri padri. Ripeto, bello. Non c’è che dire. Anche se non condivido l’accostamento all’altro, e forse più noto perché si presta di più alla spettacolarizzazione mediatica, don Lorenzo (Milani). Figura che non mi ha mai preso. Che non mi ha mai convinto, pur avendolo frequentato quando andava assai di moda e anche dopo. Forse io troppo comunista (ortodosso) e troppo anticlericale (militante) per apprezzarne il valore. Ma questo accostamento, che don Farina ripropone peraltro da parecchio tempo, no, non mi convince. Non capisco come si possano individuare nel patriarca della cooperazione trentina, segnali anticipatori della inesausta carica individualistica e radicalmente borghese che furono i tratti più vistosi del disordinato parroco di Barbiana. Al quale, infatti, un certo filone sociologico, a mio parere anche piuttosto convincente, attribuisce l’incipit di una cultura, e di una modalità di relazione sociale, aggressivamente disgregatrice dell’idea di comunità strutturata. Insomma se uno è stato un patriarca (e concordo), l’altro mi è sempre sembrato più un’icona dell’evaporazione patriarcale e paterna. Qualcuno ha usato l’espressione “eclisse di Edipo”, a proposito di quel lungo processo di disarticolazione del nesso di solidarietà comunitaria che ha attraversato la società italiana a partire dagli anni Cinquanta ed è arrivato fino allo sfilacciamento degradato di oggi. Un’icona prototipica di questo percorso degenerativo alcuni la rintracciano nel don Lorenzo disobbediente e violentemente antiautoritario. Forse è esagerato. Ma io la penso esattamente così. Per questo mi convince poco la sovrapposizione, ribadita, fra i due sacerdoti. E però, trovo che il libro di Farina, per tutto il resto, possa essere considerato tranquillamente come una specie di manuale del buon cooperatore. Uno di quei testi che dovrebbero essere stampati almeno in duecento mila copie, per essere distribuito gratuitamente a tutti i cooperatori della provincia. A partire dal famigerato sesto piano di via Segantini, per arrivare fino all’ultimo cooperatore di consumo dell’ultima sperduta vallata del Trentino. Sperando che qualcuno almeno si faccia venire in mente di sfogliarlo. Soprattutto dalle parti di via Segantini.

Sempre a proposito di cooperazione. L’altro giorno, in centro a Trento, ho incontrato casualmente uno di quegli uomini a cui il Trentino (del vino e non solo) deve molto. Uno dei protagonisti della rinascita del comparto enologico del secondo dopoguerra. Come tanti di quegli uomini usciti da San Michele e che hanno continuato a lavorare per l’agricoltura trentina in quello straordinario laboratorio di intelligenze e di risorse che è l’Udias. Insomma uno di quelli che ne hanno sempre capito e che continuano a capirne. Molto. Con la cooperazione non ci ha mai flirtato volentieri. Ma, visto il mestiere che faceva, la ha sempre frequentata. E conosciuta. Da dentro e da fuori. Ora è un vecchio signore un po’ acciaccato con la chioma argentea e i modi signorili e composti. Che nemmeno la malattia e l’età sono riuscite a compromettere. E’ fuori dal giro da molti anni. Ma continua ad osservarlo, il giro, il nuovo giro, e a dire serenamente quello che pensa, quando qualcuno gli chiede un’opinione. L’altra mattina lo ho incrociato dalle parti del Duomo: quando lo ho visto, come faccio sempre, mi sono scappellato e gli ho stretto la mano. Non per cortesia, ma perché ho sempre pensato se lo meritasse. Lui ha sempre finto un leggero imbarazzo, ma si capiva che gli faceva piacere. Dopo due parole, abbiamo deciso di andare a prendere un caffè insieme. Come era prevedibile, dopo pochi istanti, il discorso è finito irrimediabilmente dove entrambi sapevamo fin dall’inizio sarebbe andato a parare. A quel punto, questo vecchio signore che solitamente non tradisce mai la compostezza di un’eleganza senza tempo, è sbottato: “Ma porco bip bip bip, ma come si fa ad andare avanti in questo modo. Ma hai visto l’altro giorno il Conci, che dopo quarant’anni di dominio incontrastato ha lasciato la presidenza del colosso rotaliano, ma si è tenuto un posto nel CdA e si è fatto promettere la nomina alla vicepresidenza. Per poter continuare a menare il gioco. Il gioco della quotazione in Borsa della sua Cantina (chissà come la penserebbe don Guetti che non tollerava nemmeno l’uso della cambiale), ma anche il gioco dell’intera cooperazione trentina insieme a Pierluigi Angeli. E Schelfi poi, dopo aver signoreggiato incondizionatamente su via Segantini per dieci anni, si accorge solo ora di non essere stato capace di allevare un delfino degno di questo nome. E ora si fa dipingere sui giornali come un fascinoso uomo di potere tormentato sulla graticola del dubbio; diviso fra il sogno romano di FederCasse e la tentazione di usare le scappatoie degli statuti per calpestare il buon senso e le convenzioni democratiche e quindi accettare a furor di popolo il quarto mandato. Per il bene della cooperazione. E il suo vice Rauzi, che non si ricorda più neppure lui da quanti anni sta a capo degli allevatori. E il gran valzer scomposto di tutti gli altri boiardi coop, che invece di cominciare a confrontarsi democraticamente con la base sociale, sembrano incartati dentro una vertigine di potere senza capo ne coda, fra un passo avanti e uno indietro. E non sanno che pesci pigliare. Ma che razza di cooperazione è diventata questa? Dove sono i soci? Come sono ridotti i soci? Ai miei tempi si diceva che la cooperazione in Trentino era un male necessario come il matrimonio. Ma oggi, il matrimonio non va più di moda. Di sicuro non è più necessario. Mi sembra sia rimasto solo il male”. Finito il caffè, senza che io potessi dire nemmeno una parola. Non mi è rimasto altro da fare che annuire. Poi ci siamo salutati. Ciao, caro vecchio maestro. Spero di rivederti presto e in salute. Magari per poter parlare d’altro. Non di questa cooperazione che si è scordata anche l’abc della lezione di don Lorenzo. O che forse non la ha nemmeno mai studiata.