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Trento, via Romagnosi, giornata di fine luglio.
Ho un appuntamento, che si preannuncia importante, al quinto piano del palazzaccio. Sono in anticipo e cerco anche di farmi coraggio. Entro nel bistrot, che dà giusto sull’ingresso della cattedrale del marketing trentino, dove anni or sono, ma neanche tanti, fu immaginato e costruito il marchio TRENTODOC.
Sulla porta incrocio un politico di sinistra a suo tempo piuttosto influente. Erano gli anni del PCI. Scambio un breve saluto, poi diligentemente faccio la mia ordinazione: “Un Trento, grazie”.
La giovane barista, allarga gli occhioni scuri, senza riuscire a dissimulare l’imbarazzo. Poi si riprende e la vedo sparire dentro la vetrina refrigerata dei vini. La intravedo scuotere la chioma nera, attraverso il vetro appannato. Intanto sfoglio il giornale. E passano i secondi. E passano i minuti. La ragazza è ancora incastrata dentro la vetrina. Poi si gira verso di me, sembra sinceramente dispiaciuta: “Non c’è, gradisce qualcosa d’altro?”. Rispondo: “Va bene, signora, ripiego su un Altemasi”.
Le si illuminano gli occhi. Mi propone un Graal: “Perfetto”. Mi sorride, sembra perfino felice, e dopo dieci secondi lo stellato di Cavit arriva al mio tavolo, splendidamente servito con la fragolina adornativa infilata sul bordo del bicchiere. Che poi a me piace molto questo sentore di fragola accostato alla pasticceria del Metodo Classico. Mi ricordano quelle torte golose farcite di panna e fragole. A dire il vero mi ricordano anche le notti al night club. Ciascuno coltiva i propri peccati veniali. E, talvolta, mortali.
TRENTO, no. Altemasi, sì.
Perché? Perché, quando si chiede un Franciacorta tutti, da Bolzano a Palermo, capiscono subito di cosa si sta parlando. Mentre per bere un TRENTO, è necessario sempre, quasi sempre, declinare il brand aziendale? Temo che ciò non sia casuale o frutto di una comunicazione fragile. Penso che ci siano delle ragioni più serie di quel che può sembrare a prima vista. E sono ragioni che si radicano in un assetto produttivo che, per genesi, non è, e non è mai stato, il frutto di una scelta territoriale condivisa e comunitaria. Ma piuttosto di intelligenti, lungimiranti e talentuose scelte individuali e aziendali. A cui, tuttavia, è sempre mancato il registro della coralità. Esattamente il contrario di quanto è accaduto, e accade, in Franciacorta.
Poi c’è anche il resto. Ma conta di meno. Penso a quel povero marchio TRENTODOC, che ciascuno appiccica sull’etichetta come e dove gli pare. Quasi a voler scoraggiare il consumatore ad abituarsi al logotipo e a quello che c’è dietro. Ma queste sono finezze. O facezie.

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